di Enrico Lorenzo Tidona. Pubblicato su La Gazzetta di Reggio il 9 settembre 2018.

Reggio Emilia: a dirlo è l’attuale pm di Aemilia. Ecco le motivazioni del Gip che 22 anni fa rigettò la carcerazione del futuro boss.

REGGIO EMILIA. Il 19 agosto del 1997 fu rigettata dal gip di Bologna la richiesta di custodia cautelare in carcere avanzata dalla Dda di Bologna per 22 persone pionieristicamente indagate come membri «di una organizzazione di tipo mafioso riconducibile alla riconosciuta cosca Dragone».

Non casi o reati singoli, quindi, come venivano trattati in genere, ma degli associati che insieme, a Reggio Emilia e dintorni, compivano truffe, ricettazioni, usura, estorsione, sfruttamento della prostituzione (secondo lo schema del mascheramento della stessa nell’ambito della gestione di locali notturni), «nonché e principalmente, emissione di fatture per operazioni inesistenti, realizzate per mezzo di una struttura di controllo organizzativo attraverso studi professionali».

Assunto che veniva riportato nella corposa inchiesta del 1996, finita però nell’oblio nonostante contenesse parte consistente dell’impianto accusatorio dell’inchiesta Aemilia, quella contro la ’ndrangheta al Nord ora giunta a processo con 219 imputati. Ventidue anni prima, l’allora pm Carlo Ugolini aveva individuato un «unitario schema di controllo fondato sul regime tipico di intimidazione e solidarietà delle organizzazioni di matrice mafiosa», localizzato nella sua inchiesta del 1996 «a Reggio Emilia, Piacenza, Parma, Cremona ed altri luoghi fino al 1997». Un’inchiesta Aemilia prima di Aemilia, visto che i luoghi, i reati e le persone, erano in molti casi le stesse.

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