di Paolo Bonacini. Pubblicato su La Gazzetta di Reggio il 29 aprile 2018.

Nel processo Aemilia emergono storie di muratori “venduti” e spediti come merce nei cantieri per quattro soldi.

Dentro le storie di Aemilia ci sono persone vere, con nome e cognome. Ci sono vittime che hanno subito intimidazioni, minacce e violenze firmate dalla ’ndrangheta. I lavoratori sono il fronte più esposto, soprattutto nel mercato dell’edilizia che non brilla per chiarezza e certezza del diritto. Un comparto nel quale in archi temporali ristretti si consuma il rapporto ed è più facile imporre, a chi ha bisogno di lavorare, le regole che non stanno sui contratti collettivi ma nella testa di chi ha l’unico obbiettivo del massimo profitto.

Un modo per raccontare l’infiltrazione della ’ndrangheta in Emilia Romagna è seguire le tracce del caporalato, dello sfruttamento, dei badili e del gesso che manovali capaci venuti dal sud sapevano usare nelle costruzioni meglio di chiunque altro, senza per questo ricevere in cambio paghe e diritti superiori agli altri. È una storia che inizia negli anni Sessanta, che unisce la migrazione dettata dal bisogno a quella delle scorciatoie illecite scelte dalla criminalità organizzata, come ricorda il collaboratore di giustizia Antonio Valerio: «Nel 1967 partirono i primi e assieme alla manovalanza arrivava il caporalato sia sul lavoro sia nel dormire. Perché prendevano un appartamento e ci mettevano dentro venti, trenta persone. Come fanno con i neri adesso: era uguale». Dieci anni dopo è lo stesso Valerio a seguire quel fiume che sfocia a Reggio Emilia: «Vivevo in un monolocale con quattro letti e un cesso», assieme agli altri intonacatori venuti da Cutro a coprire un bisogno crescente di manodopera specializzata. Altri dieci anni e la migrazione dal sud diventa un mare di gente, «come le flotte dei barconi che arrivano a Lampedusa». Persone in balìa dello sfruttamento perché al Nord «gli tiravano il sangue, glielo risucchiavano con la siringa. Chi gestiva il caporalato prendeva 20mila lire all’ora e a chi lavorava gliene dava solo 10mila. Guadagnava più lui del muratore».

La ’ndrangheta ci ha sguazzato su questa filosofia vendendo uomini a ore sui cantieri e negli appalti del mercato emiliano romagnolo. Offerti come merce a basso costo e acquistati senza alcuno scrupolo da una imprenditoria locale più attenta agli utili che alle regole. Secondo Valerio, i fratelli Palmo e Pino Vertinelli, oggi imputati del 416 bis, già nel 1986 ammassavano «30, 50, fino a 80 persone in un furgone» per portarli sui cantieri, e semmai arrivava l’Ispettorato del Lavoro per i controlli c’era già chi aveva pagato perché quelli «chiudessero non solo un occhio ma tre; non solo quelli davanti ma pure uno dietro se ce l’avevano».

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