Dopo aver letto le 1011 pagine delle motivazioni della sentenza d’appello del rito ordinario del processo Aemilia abbiamo deciso, in questo editoriale, di raccontare quello che il giudice ha descritto come “borghesia mafiosa” a servizio della “holding criminale” emiliana [continua dalla prima].

– LA BATTAGLIA POLITICO MEDIATICA – 
All’interno delle motivazioni della sentenza, ampio spazio viene riservato a quella che il giudice definisce “la battaglia politico-mediatica della cosca” avviata nel 2012.

“Mentre i giornalisti scomodi che mettevano in luce episodi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa in Emilia venivano intimiditi per indurli a tacere, il gruppo criminale si affidava ad altri, ben più compiacenti, per divulgare una immagine dei sodali maggiormente appetibile per l’opinione pubblica. Di fatto, i giornalisti, gli appartenenti alle Forze dell’Ordine ed i politici addomesticati intervenivano a favore dei partecipi in base alle richieste avanzate e restituivano una immagine di rispettabilità pubblica”.

È ancora una volta il giudice Calandra a ricostruire le motivazioni che hanno portato il clan a scegliere un’inedita via mediatica e politica.

“Emerge chiaramente che i componenti del sodalizio pativano fortemente l’attività di contrasto alle infiltrazioni mafiose posta in essere dal nuovo prefetto di Reggio Emilia Antonella De Miro attraverso i decreti interdittivi prefettizi. Altrettanto indigesto era per gli associati il risalto che la stampa nazionale e quella locale avevano iniziato a dare all’infiltrazione mafiosa in Emilia”.

L’intendo della battaglia politico-mediatica era dunque quello di

“minimizzare la presenza della ‘ndrangheta e distogliere l’attenzione della collettività dalla problematica dell’infiltrazione mafiosa nel settore dell’edilizia e dei trasporti, insinuando nella pubblica opinione il dubbio circa la legittimità degli interventi delle Autorità Pubbliche”.

In questo ambito sono due i nomi sui quali il giudice si è maggiormente concentrato: il giornalista Marco Gibertini e il politico Giuseppe Pagliani. Il primo condannato sia in primo grado che in appello a 9 anni e 4 mesi di reclusione. Pagliani invece, assolto in primo grado, viene condannato in appello a quattro anni per concorso esterno.

Oltre a prestare il proprio microfono alla cosca, Gibertini viene anche condannato per estorsione nei confronti di alcuni imprenditori.

“Gibertini- scrive il giudice- forte della propria attività di giornalista televisivo e delle sue conoscenze nel mondo imprenditoriale reggiano ha assunto a favore del sodalizio mafioso un duplice ruolo: da una parte quello di collettore di imprenditori alla ricerca di soluzioni alternative illecite per il recupero di crediti” dall’altra parte “ha offerto un concreto contributo per porre in essere una controffensiva mediatico-politica per salvaguardare gli interessi del sodalizio”.

All’origine di tale comportamento, secondo quanto stabilito dal giudice, “sembra esserci una deplorevole ammirazione per la potenza e per la ricchezza del sodalizio calabrese”. È proprio Gibertini che, a disposizione del clan, offre la possibilità ai mafiosi di affacciarsi “alla ribalta mediatica dando agli imprenditori ‘ndranghetisti la dignità di voce meritevole di inserimento nel pubblico dibattito cittadino”. Non usa mezzi termini il giudice Calandra che, nel condannare nuovamente Gibertini, scrive:

“Non ravvisare in queste condotte un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario per il rafforzamento delle capacità operative del sodalizio significherebbe misconoscere la prepotente verità che emerge dal compendio probatorio acquisito agli atti”.

Emblematica in tal senso anche la figura del politico e avvocato Giuseppe Pagliani. Assolto in primo grado dal GUP Zavaglia, il giudice Calandra ha invece ritenuto gli elementi probatori raccolti sufficienti per condannarlo a 4 anni di reclusione per il reato di concorso esterno in quanto le sue condotte sono state

“concretamente idonee e deliberatamente orientate a fornire supporto, visibilità e cassa di risonanza al progetto di attacco alle istituzioni e agli organi di informazione ideato dal gruppo criminoso per insinuarsi con maggior potenza, visibilità e parvenza di legittimazione anche politica all’interno del tessuto sociale della regione”.

È dunque provato che Pagliani abbia assunto un “atteggiamento promozionale del teorema ideato dal gruppo mafioso”. L’intento dei sodali era infatti dunque quello di crearsi una sponda politica, affidandosi ad un esperto che sapesse loro indicare come muoversi, che li appoggiasse politicamente nelle loro rivendicazioni contro il Prefetto e ne sostenesse pubblicamente la campagna contro le istituzioni e gli organi di informazione che stavano diffamando ed emarginando ingiustamente le ditte calabresi.

“Pagliani non solo conosceva una parte significativa dei sodali, la loro caratura criminale e l’ideazione da parte degli stessi di un progetto di attacco politico-mediatico alle autorità locali, ma costituiva un tassello essenziale per l’esecuzione del programma criminale del sodalizio, cui forniva effettivamente e concretamente una cooperazione ben precisa, efficace e consapevole. Pagliani si era fatto portavoce della cosca, divenendone la sponda politica e l’appoggio pubblico”.