di Marco Birolini. Pubblicato su L’Avvenire il 6 gennaio 2018.

Parla ad Avvenire un ex comandante indiano: «Così le industrie hanno avvelenato le coste della Somalia per anni»

«Tra il 1990 e il 2000 il mare davanti alla Somalia era diventato una pozzanghera dove tutti gettavano di tutto. Nell’ambiente marittimo era risaputo ». L’ombra delle navi dei veleni rispunta dalle parole del comandante Kaizad H. Quarant’anni, di origini indiane, ha passato metà della sua vita navigando per i mari di mezzo mondo. Ora che si è ritirato sulla terraferma, continua a scrutare dalla scrivania ciò che si muove sulle onde degli oceani. «Adesso il mio lavoro consiste nel rintracciare navi attraverso il satellite», spiega al telefono da una località fuori Londra, senza entrare troppo nei dettagli.

La sua testimonianza, raccolta da Avvenire, conferma che per anni il mondo industrializzato ha scaricato porcherie nelle acque del Corno d’Africa. «Funzionava così – spiega Kaizad –: le industrie chimiche affidavano i loro scarti a contractors, che poi subappaltavano il trasporto per confondere le tracce il più possibile. Si creava una catena di società in modo che fosse assai difficile risalire alle responsabilità. Poi, invece di venire stoccate in modo sicuro in siti sulla terraferma, le scorie finivano per essere caricate a bordo di piccole navi e poi gettate in acqua. Queste ultime sono meno controllate, dunque è più facile passare inosservati e liberarsi del carico una volta arrivati in mare aperto. In quegli anni la Somalia era collassata, non c’era più la sorveglianza dello Stato sulle coste, quindi era il luogo ideale dove far confluire i traffici».

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