di Sofia Nardacchione e Rebecca Righi
Tornano ad intrecciarsi e venire alla luce vicende legate a Black Monkey, il processo di ‘ndrangheta che si è celebrato a Bologna e la cui sentenza di primo grado ha riconosciuto la presenza di una associazione mafiosa di stampo ‘ndranghetista che si occupava di gioco d’azzardo legale e illegale, ma non solo.
È di questa mattina la notizia che Calogero Lupo – condannato nel processo Black Monkey a cinque anni di reclusione per il reato di intestazione fittizia di beni, in concorso con Nicola Rocco Femia – è stato arrestato dal Gico di Bologna, insieme ad altre due persone, Bruno Filippone e Francesco Corrao, con l’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso, proprio ai danni dei familiari di Femia.
Ad essere stati minacciati – nella tesi della Direzione distrettuale antimafia di Bologna che ha chiesto l’arresto – sarebbero i due figli di Nicola Rocco Femia, diventato collaboratore di giustizia a marzo dell’anno scorso, Rocco Maria Nicola detto ‘Nicolas’ e Guendalina.
Tutti e tre i Femia sono stati condannati in primo grado nel processo Black Monkey anche per associazione mafiosa rispettivamente a 26 anni e 10 mesi, 15 anni, 10 anni e 3 mesi.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, i tre arrestati all’inizio del 2016 si sono rivolti a Nicolas e Guendalina per ottenere il pagamento di una somma di 50.000 euro, a loro dire dovuta da Rocco Femia (allora in carcere) alla cosca Bellocco.
La vicenda nasce da un fatto già emerso nel processo Black Monkey: Giampiero Dibilio, proprietario di una delle più grandi sale giochi di Roma, contrae con Femia – da cui comprava le schede e le slot machines – un debito di 280mila/300mila euro, a causa del quale decide di dargli in gestione temporanea la sala giochi (alla Guardia di Finanza aveva dichiarato che era stato costretto). Licenzia, o meglio viene costretto a licenziare, i suoi dipendenti e la gestione viene affidata a un collaboratore di Femia.
Per riuscire nel suo scopo, Femia si era valso non solo della forza di intimidazione del suo gruppo, ma anche di altri uomini appartenenti a importanti ‘ndrine calabresi, tra le quali quella dei Bellocco, originaria di Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, ma ben radicata in Emilia Romagna, soprattutto nella zona di Granarolo dell’Emilia (dove, non a caso, nel 2009 erano già stati arrestati dalla Questura di Bologna il capocosca Carmelo Bellocco e il figlio Umberto).
Proprio con i Bellocco Femia avrebbe gestito la sala giochi romana, e per questo motivo la metà dei guadagni realizzati (50.000 euro, appunto) avrebbero dovuti essere versati ai Bellocco. Messi alle strette, tra il novembre e dicembre 2016 Nicolas e Guendalina avrebbero pagato in tre tranche la somma, salvo poi denunciare alla Guardia di Finanza quella che secondo loro era una vera e propria estorsione.
Decisiva, per convincere Nicolas e Guendalina a pagare il debito del padre, sarebbe stata la vicinanza di uno dei tre arrestati, Francesco Corrao, con elementi di spicco della ‘ndrina Bellocco.
A tenere le fila di tutta l’operazione sarebbe stato Calogero Lupo, originario di Mazara del Vallo, 51 anni, con una fedina penale di tutto rispetto: reati contro il patrimonio, reati in materia di stupefacenti e, dulcis in fundo, la condanna nel processo Black Monkey, nella quale figura complice di Rocco Femia.
Anche se, a dire la verità, già dalla sentenza di primo grado emergono alcune crepe nel rapporto tra Lupo e Femia. Lupo Calogero, infatti, era intestatario della società Lu.Me. (di cui era titolare insieme a Gianloris Mengoli, anche lui imputato nel processo Black Monkey e poi assolto nel rito abbreviato per non aver commesso il fatto) e, attraverso questa, di due appartamenti situati nel paese di Conselice, in provincia di Ravenna.
Il Tribunale di Bologna ha accertato che quei due appartamenti sono sempre stati a completa disposizione di Nicola Rocco Femia, dei suoi famigliari e dei suoi dipendenti e dunque – in definitiva – alla cosca di ‘ndrangheta da lui capeggiata.
Rocco Femia, infatti, versava per l’utilizzo degli appartamenti, canoni irrisori (200 euro), senza che ci fosse alcun contratto, né di affitto né di compravendita. Tutto ciò aveva provocato uno scontro tra Lupo e l’altro titolare della Lu.Me., Gianloris Mengoli, che però non erano riusciti ad arrivare ad alcun accordo. Mengoli decise quindi di andare avanti da solo, mandando a Femia una raccomandata con la quale chiedeva il pagamento dei canoni.
Sentito durante il processo, Mengoli ha affermato che Lupo esercitava su di lui una vera e propria forza intimidatoria, tanto che i due soci cercavano un accordo solo tramite un intermediario, tale Blancuzzi.
E sarà proprio quest’ultimo che inviterà Mengoli a cena per cercare di risolvere la questione “con le buone”. Proprio con le buone però non si risolse, perchè mentre Mengoli sedeva all’aperto fuori da un locale insieme a Blancuzzi, venne aggredito alle spalle da due uomini incappucciati. Neanche a dirlo, Blancuzzi non mosse un dito.
Sempre durante le udienze del processo Black Monkey, Rocco Femia, dal canto suo, ha raccontato di aver conosciuto Lupo tra il 2005 e il 2006. E nel 2007 prese a leasing dall’azienda di Lupo una Porsche. Non proprio lui, a dir la verità: la macchina venne intestata alla società di Nicola Femia, la Videogames Femia. Femia infatti allora non dichiarava redditi (lui no, ma la sua azienda sì, tanto da potersi permettere di spendere, appunto, 100.000 per una Porsche).
Quanto ai due appartamenti di Conselice, Rocco Femia ha sostenuto di averli utilizzati come propri in virtù di un debito che Lupo aveva nei suoi confronti di circa 200.000 euro.
A prescindere dagli accordi interni di Lupo e Femia, quello che interessa al Tribunale di Bologna è che i due appartamenti fossero nella piena disponibilità di Rocco Femia e della sua cosca. A conferma di questo, i giudici di Bologna riportano nella sentenza di primo grado le conversazioni intercettate tra Rocco e i suoi dipendenti e complici, che venivano via via ospitati negli appartamenti di Lupo. Si tratta di problemi di ordinaria amministrazione, in particolare di bollette non pagate, tanto che Rocco (il quale aveva tutte le chiavi e poteva entrare in qualsiasi momento) doveva attivarsi quando veniva staccato il gas, cercando di capire a chi fossero intestate le bollette e chi era che non aveva pagato (gli stessi che spendevano 100 000 euro in Porsche ndr).
Lo scenario è in continua mutazione. Da quando Rocco Femia ha iniziato a collaborare con la giustizia, infatti, sono stati diversi i segnali di movimento nel sottobosco mafioso del gioco d’azzardo.
È di dicembre 2017, ad esempio, la notizia che è stata bloccata da una interdittiva antimafia emessa dalla Prefettura di Ravenna la società Romagna Giochi di Matteo Terrabusi. E proprio Terrabusi, in un’intervista pubblicata a luglio del 2016 sul Resto del Carlino, aveva rivelato di aver intrattenuto scambi commerciali con la Starvegas di Guendalina Femia, una delle numerose aziende della galassia Femia.
L’operazione di ieri scopre un altro pezzo del mosaico: quello in cui le ‘ndrine, collaborative finchè gli affari prosperavano, ora – mentre il capo della cosca Femia è in carcere – presentano il conto. Chi è rimasto fuori (pur magari con una condanna non definitiva sulla testa) si sta approfittando della carcerazione del boss per recuperare qualche decina di migliaia di euro? Quali armi rimangono in mano a Rocco Femia, e qual è il senso della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria? Chi sta mettendo a rischio con le sue rivelazioni?