Due città: Roma e Bologna. La Corte di Cassazione da un lato e la Corte d’Appello dall’altro. Due sentenze, due processi e una conclusione: non è mafia. Non è mafia tutto quello che è emerso nel processo Mondo di Mezzo. Non è mafia tutto quello che è emerso nel processo Black Monkey. È questo il resoconto di quanto accaduto nelle ultime settimane. In attesa delle motivazioni, tuttavia, è utile ricostruire l’iter giudiziario di questi due processi e avviare un ragionamento sulla legislazione che regola il fenomeno mafioso.
MONDO DI MEZZO
La prima sentenza in questione è quella emessa lo scorso 22 ottobre dalla Corte di Cassazione la quale ha scritto la parola fine al processo Mondo di Mezzo decretando che il sistema emerso durante i tre gradi di giudizio non ha le caratteristiche per essere definito mafioso. L’intero processo, tuttavia, è stato caratterizzato dall’andamento altalenante paragonabile a un pendolo che stabilisce oggi sì domani no, che si tratta di mafia.
-
L’INCHIESTA
Tutto ha inizio con due tranches di arresti: 28 persone il 2 dicembre 2014 e 44 il 4 giugno 2015. Due i nomi che a livello mediatico hanno fatto maggiormente scalpore: Massimo Carminati, ex membro del NAR, e Salvatore Buzzi, amministratore del consorzio di cooperative Eriches. Tra i numerosi reati loro contestati uno spicca su tutti: associazione a delinquere di stampo mafioso. “A Roma non c’è un’unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato Mafia Capitale, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso” sono queste le parole utilizzate dal procuratore di Roma Giuseppe Pignatone.
-
L’IMPIANTO ACCUSATORIO E STRUTTURA DELL’ASSOCIAZIONE
L’impianto accusatorio designa “la presenza di un’associazione di stampo mafioso operante su Roma e nel Lazio, che si avvale della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti di estorsione, di usura, di riciclaggio, di corruzione di pubblici ufficiali e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici”. Massimo Carminati viene ritenuto il capo dell’associazione in quanto “sovrintende e coordina tutte le attività, impartisce direttive agli altri partecipi, individua e recluta imprenditori, ai quali fornisce protezione, mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operanti su Roma nonché con esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario, con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti”. Salvatore Buzzi viene invece individuato come organizzatore dell’associazione in quanto “gestisce, per il tramite di una rete di cooperative, le attività economiche dell’ associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, dell’accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico e negli altri settori oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo, si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”.
-
L’ITER GIUDIZIARIO
La sentenza di primo grado arriva il 20 luglio 2017: la 10° sezione del Tribunale penale di Roma derubrica il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso in associazione semplice. Le condanne sono comunque alte: 20 anni di reclusione per Massimo Carminati e 19 anni per Salvatore Buzzi. Il processo d’appello ha inizio il 6 marzo 2018 e l’impianto accusatorio, nonostante la sentenza di primo grado, non cambia: si tratta di mafia. Questa volta, però, la linea della Procura trova conferma nella sentenza emessa dalla terza sezione della Corte d’Appello di Roma che l’11 settembre 2018 riconosce la sussistenza di un sistema criminale di stampo mafioso.
Le condanne per Buzzi e Carminati vengono tuttavia ridimensionate: 18 anni e 4 mesi per il primo, 14 anni e 6 mesi per il secondo. In questa sentenza vengono riconosciuti anche l’aggravante mafiosa e il concorso esterno per altri imputati. La sentenza definitiva, però, ha totalmente ribaltato quanto stabilito dalla Corte d’Appello, confermando la decisione presa dalla 10° sezione del Tribunale penale di Roma. No, non è mafia. Così ha stabilito lo scorso 22 ottobre la Suprema Corte di Cassazione. L’accusa viene definitivamente confermata in associazione a delinquere semplice confermando al contempo l’esistenza di due associazioni distinte: una capeggiata da Carminati e una da Buzzi. 24 dei 32 imputati coinvolti aspettano che venga ridefinita la pena che dovranno scontare.
BLACK MONKEY
-
L’INCHIESTA
Si è trattato del primo vero processo di ‘ndrangheta al nord. Iniziato nel novembre 2013 presso il Tribunale di Bologna, a 13 sui 23 imputati viene contestato il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
-
L’IMPIANTO ACCUSATORIO E STRUTTURA DELL’ASSOCIAZIONE
L’impianto accusatorio descrive la presenza di un gruppo criminale ‘ndranghetista con sede a Conselice, in provincia di Ravenna, ma con diramazioni in tutta la regione e in tutta la nazione. A capo di questo gruppo i PM collocano il boss Nicola Rocco Femia, giunto in regione tramite il soggiorno obbligato. E’ lui, si legge nelle motivazioni della sentenza di primo grado, ad avere “il ruolo egemone di capo indiscusso e promotore dell’associazione ma anche e soprattutto di titolare delle risorse finanziarie investite per costituire le società e le ditte intestati a prestanome”. Attorno a lui nel ruolo di promotori e organizzatori “gravitano in una sorta di cerchio magico”, si legge ancora nelle motivazioni, i figli Guendalina e Rocco Maria Nicola, insieme al genero Giannalberto Campagna.
Anche qui, se dovessimo citare il processo romano, non manca il Mondo di Mezzo. Quella zona grigia fatta dei cosiddetti “uomini cerniera” che tengono uniti gli interessi del clan con quelli dei colletti bianchi: professionisti che mettono a disposizione del gruppo criminale le proprie competenze e conoscenze. E’ sempre il Pubblico Ministero Francesco Caleca a definire durante la requisitoria il gioco d’azzardo come “il polmone finanziario dell’associazione” messo in piedi attraverso un complesso meccanismo di contraffazione delle schede delle slot machines.
Il primo grado di giudizio del rito ordinario si è concluso il 22 febbraio 2017 con una sentenza che da molti è stata definita storica: si, il gruppo facente capo a Nicola Rocco Femia è un gruppo criminale di stampo mafioso. Altissime le pene inflitte: 26 anni e 10 mesi per Nicola ‘Rocco’ Femia, 12 anni e 2 mesi per il genero Campagna Giannalberto, 10 anni e 3 mesi per la figlia Guendalina e 15 anni per il figlio Rocco Maria Nicola. Gli anni totale di carcere commissionati ammontano a 175. “Tutti gli elementi inequivocabilmente emersi nel corso del dibattimento (potere di intimidazione e assoggettamento, omertà, controllo di settori economici, infiltrazioni nelle istituzioni, consolidati legami con altre consorterie mafiose) inducono ampiamente a ritenere la natura mafiosa dell’associazione per delinquere facente capo a Nicola Femia” si legge sempre nelle motivazioni della sentenza di primo grado. Pochi giorni dopo la lettura della sentenza viene resa pubblica la notizia della collaborazione con la giustizia di Nicola Rocco Femia. Collaborazione che, tuttavia, viene definita dal procuratore generale Nicola Proto durante una delle ultime udienze del processo come “semplici dichiarazioni” perché quanto riferito da Femia non aggiunge nulla “a un quadro probatorio granitico”.
A ribaltare completamente l’epilogo del primo grado di giudizio del processo, la sentenza emessa lo scorso 29 ottobre dalla Corte d’Appello di Bologna: no, non è mafia. Per gli imputati che in primo grado erano stati condannati per 416bis, è caduto il reato di associazione mafiosa. In alcuni casi è rimasto però l’articolo 7, cioè l’aggravante mafiosa. Secondo i giudici si tratta dunque di associazione semplice e questo ha comportato una riduzione delle condanne per gran parte dei 23 imputati. Per Nicola Rocco Femia la pena è passata da 26 anni e 10 mesi a 16 anni, 7 anni per Giannalberto Campagna, 5 per Guendalina Femia e 10 per Nicola Mari Rocco.
PARLARE DI MAFIA: PROBLEMA CULTURALE O PROBLEMA GIURIDICO?
Il giornalista Aldo Giannulli ha scritto in un recente articolo “va da sé che ogni mafia sia criminalità organizzata, ma non è vero il contrario, non ogni organizzazione criminale è mafia”. E’ questo il punto centrale di tutti i dibattiti scaturiti dalle sentenze di Roma e Bologna. Il fatto che entrambi i processi siano caratterizzati da sentenze discordanti tra loro è un indicatore da non sottovalutare. Emerge in maniera sempre più chiara, infatti, la difficoltà che oggi si ha nel pronunciare la parola “mafia”. Semplice, quasi naturale, farlo quando si parla di fatti che si verificano nelle regioni del sud. Difficile, quasi impossibile, parlare di mafia da Roma in su. E le sentenze lo dimostrano.
Il dilemma però sta qui: questa difficoltà è da ricondurre a un atteggiamento prettamente culturale e sociale o puramente legislativo e giuridico? In realtà sono vere entrambe le ipotesi. Da un lato l’approccio mediatico, politico e sociale al fenomeno della presenza mafiosa al nord è ancorato a una visione negazionista: non si tende a parlare di radicamento ma di infiltrazione. Non si guarda il quadro d’insieme ma i singoli reati, le singole inchieste e i singoli processi. Non si analizzano i nuovi campi di azione delle mafie al nord. Non si ammettono le responsabilità politiche di chi doveva sorvegliare e non ha monitorato il territorio. Non si sottolinea il ruolo dei colletti bianchi, fondamentale per la buona riuscita degli affari dei clan. Non si riconosce l’autonomia delle mafie al nord. Non si prevedono le nuove frontiere verso cui esse si dirigono. Tutto questo, dunque, si traduce in una difficoltà culturale che rende quasi impossibile parlare dell’Emilia Romagna, e delle altre regioni del nord, come terre di mafia.
Il problema, però, è da individuare anche dal punto di vista legislativo e giuridico. Partiamo da un punto: una legge riflette la visione criminologica del proprio tempo. Il 416bis lo dimostra: questo articolo è stato introdotto nel nostro Codice Penale con la Legge n. 646 del 1982, la legge Rognoni-La Torre, ed è una legge nata durante la più spietata guerra di mafia. Siamo in Sicilia negli anni 80. Politici, giornalisti, esponenti delle forze dell’ordine, magistrati, semplici civili vengono uccisi quotidianamente da esponenti mafiosi presenti in regione, in particolar modo a Palermo. “L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali” recita così il 416bis. E ancora “Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.
La realtà cambia e con essa cambia anche il modus operandi delle mafie e la loro presenza al nord ne è la prova lampante. Negli anni, cambiando strategia, cambiando territori, cambiando campi di azione, cambiando obiettivi, cambiando interlocutori, le mafie hanno avuto modo di intraprendere un percorso caratterizzato da una vera e propria metamorfosi evolutiva grazie anche e soprattutto alla mimetizzazione sociale che sono state in grado di mettere in campo. Le mafie al nord hanno avuto modo, grazie all’indifferenza e alla complicità di molti, di rendere sempre più sottile la linea che separa l’economia legale da quella illegale. E lo Stato, molte volte, ha facilitato questa operazione. Lo ha fatto con il massimo ribasso, con i mancati controlli sugli appalti e sui subappalti, con l’innalzamento del tetto massimo per l’affidamento diretto da 40.000 euro a 150.000 euro. Sono tante, innumerevoli, le responsabilità che andrebbero attribuite. Ma non è questo il momento di sviscerarle.
Adesso, preso atto di queste ultime due sentenze, è giunto il tempo di prendere atto di un dato: l’esistente è cambiato e con esso deve cambiare anche la legge che lo regola. Ma, al contempo, si fa sempre più forte anche un’altra convinzione: diventa sempre più difficile la narrazione delle mafie in Emilia-Romagna, per noi che abbiamo scelto di raccontarne il volto. Non sarà, però, una sentenza a farci cambiare rotta, a farci perdere la bussola, né a farci tornare indietro. Non sarà una sentenza.