di Paolo Bonacini. Pubblicato su Il Fatto Quotidiano il 7 gennaio 2018.
Il primo febbraio prossimo inizieranno le arringhe finali, ma prima i giudici vogliono ascoltare tre nuovi testimoni sul rapporto tra criminalità organizzata e istituzioni locali. Alla sbarra sono il radicamento in Emilia Romagna della cosca cutrese collegata al boss Nicolino Grande Aracri, alla finestra a guardare c’è una comunità locale stordita dalle dimensioni della infiltrazione mafiosa nei propri territori e divisa nella valutazione del problema.
L’inizio della fine per il processo Aemilia è segnato per giovedì 1 febbraio 2018, ma prima sarà di nuovo la politica a tornare a processo. A tre anni dalla notte del 28 gennaio 2015, quando 117 arresti segnarono la più grande operazione della Direzione Antimafia contro la ‘ndrangheta nel nord Italia, salvo sorprese la parola passerà ai pubblici ministeri per le arringhe. Il processo, iniziato nel marzo 2016, ha appena spento la seconda candelina di Natale ma il presidente del Tribunale Francesco Maria Caruso ha chiuso in fretta le feste, nell’udienza del 28 dicembre, indicando i nomi dei nuovi testimoni che il collegio giudicante intende ascoltare prima delle conclusioni: l’ex direttore dell’Agenzia del Territorio Potito Scalzulli, l’ex assessore alla legalità Franco Corradini e lo scrittore Enzo Ciconte. Tre persone, che scalderanno l’aria dell’aula bunker di Reggio Emilia nel mese di gennaio, per approfondire un tema che tiene banco più di altri dopo le deposizioni dei collaboratori di giustizia Antonio Valerio e Salvatore Muto: il rapporto tra mafia, istituzioni locali e politica. In totale sono 147 gli imputati rinviati a giudizio; altri 87 hanno scelto il rito abbreviato a Bologna che nel settembre scorso ha concluso il processo d’appello con 56 condanne per alcuni secoli di carcere. Alla sbarra sono il radicamento in Emilia Romagna della cosca cutrese collegata al boss Nicolino Grande Aracri e i suoi affari illeciti che hanno movimentato attività, dalla falsa fatturazione alle truffe comunitarie, dallo sfruttamento di mano d’opera al controllo del mercato edile, per miliardi di fatturato. Alla finestra, a guardare, c’è una comunità locale stordita dalle dimensioni della infiltrazione mafiosa nei propri territori, divisa nella valutazione del problema.
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