Di Sofia Nardacchione, pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 19.07.2019
Un impero del gioco d’azzardo gestito dalla ‘ndrangheta in Emilia-Romagna, minacce di morte al giornalista Giovanni Tizian, tentati sequestri, pestaggi, estorsioni, corruzione, intestazione fittizia di beni. Sono alcuni degli aspetti del processo “Black Monkey“, il cui secondo grado è iniziato poche settimane fa nel Tribunale di Bologna. Alla sbarra la cosca che per l’accusa è guidata da Nicola ‘Rocco’ Femia, condannato in primo grado a 26 anni e 10 mesi per associazione mafiosa. Femia, che deve scontare anche altre condanne, tra cui una di 23 anni per narcotraffico internazionale, aveva iniziato a collaborare con la giustizia. Poco prima della sentenza di primo grado, emessa a febbraio 2017, aveva saltato il fosso, decidendo di farsi pentito.
Sulla collaborazione di Femia, però, sembra che i giudici abbiano diversi dubbi: durante la testimonianza del boss, nell’udienza del 16 luglio, il presidente della corte d’Appello Luca Ghedini lo ha più volte interrotto affermando che non stava dicendo nulla di nuovo rispetto a quanto emerso nel processo di primo grado. Collegato in videoconferenza, Femia ha cercato di dipingersi come una vittima del sistema giudiziario. Ma non solo: si è detto anche vittima di quei mafiosi ai quali si era rivolto tutte le volte in cui aveva avuto bisogno di ricorrere a metodi violenti. Mafiosi di mafie diverse usati come una sorta di service della violenza: camorristi, il clan Sarno e quello dei Casalesi, per quanto riguarda i fatti di Modena e ‘ndranghetisti, in particolare le potenti famiglie mafiose dei Bellocco e dei Mazzaferro, per quelli di Bologna. A dirlo è lo stesso Femia, che lo aveva dichiarato anche negli interrogatori del 2017, quando aveva iniziato a collaborare con la giustizia.
L’impero del gioco d’azzardo illegale – Negli interrogatori, sei in totale tra il marzo e il giugno 2017, il boss ha ripercorso anche i meccanismi del gioco d’azzardo illegale. Quello creato dalla famiglia mafiosa – trasferitasi nel 2002 a Conselice, in provincia di Ravenna, da Marina di Gioiosa Jonica – e dai sodali è stato definito dai giudici un vero e proprio “impero”, che si estendeva anche al di fuori dei confini nazionali e arrivava fino in Inghilterra e in Romania. Un impero legale e illegale: tutte le imprese di gioco d’azzardo che facevano capo a Femia avevano un “mercato parallelo” di schede (quelle che si inseriscono all’interno delle slot machine) contraffatte commercializzate in tutta Italia. “Con l’Arcade – racconta Femia parlando di una delle sue società – abbiamo distribuito solo schede di tipo ‘Black Monkey‘ (da cui prende il nome l’inchiesta, ndr) di cui 500 ‘normali’ ed il resto ‘taroccate’”.
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