Un argomento che in queste settimane sta senza dubbio avendo un’enorme risonanza a livello mediatico è il dibattito che si è creato intorno al tema delle scarcerazioni di massa nei confronti di molti detenuti. In questo editoriale proviamo a ricostruire quanto accaduto.
- Le rivolte
Durante le prime due settimane di marzo si registrano, in più di venti istituti penitenziari, numerose rivolte da parte della popolazione carceraria. Il bilancio è durissimo: 14 i detenuti morti. Passano i giorni, molti chiedono le dimissioni del Direttore Generale del DAP Francesco Basentini. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede definisce queste rivolte come “atti criminali“. Dietro queste sommosse, la paura di un contagio di massa a causa dell’emergenza sanitaria da Covid 19 che si sarebbe potuta tradurre in una vera e propria mattanza a causa, soprattutto, del sovraffollamento delle carceri.
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Le circolari
Il 21 marzo Basentini dirama a tutti gli istituti penitenziari una nota attraverso la quale viene chiesto di “comunicare con solerzia all’autorità giudiziaria il nominativo di quei detenuti che hanno più di 70 anni e che sono affetti da determinate patologie“. Durante i primi giorni di aprile il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi trasmette un’indicazione a tutte le procure generali d’Italia in cui viene suggerita “l’opportunità di valutare diverse opzioni per ridurre la popolazione carceraria“.
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Il caso Bonura
Il 20 aprile il Tribunale di Sorveglianza di Milano stabilisce che il boss Francesco Bonura, 78enne condannato a 18 anni e 8 mesi per associazione mafiosa e sottoposto al 41 bis, dovrà lasciare il carcere di Opera e scontare i residui 11 mesi di pena agli arresti domiciliari a causa di gravi problemi di salute. “In considerazione dell’età avanzata del soggetto e della presenza di importanti problematiche di salute, con particolare riguardo alle patologie di natura oncologica e cardiaca, vi sono i presupposti per il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena” si legge nel provvedimento. Esplode il caso mediatico. “I capimafia detenuti al 41bis cominciano in questi giorni di emergenza Coronavirus, uno dopo l’altro, a lasciare il carcere” scrive il giorno dopo il giornalista Lirio Abbate in un articolo pubblicato su L’Espresso. La polemica si sposta immediatamente sul piano politico in quanto questa decisione viene collegata al decreto Cura Italia. “E’ del tutto errato parlare di scarcerazione in riferimento al recente decreto Cura Italia” specificano gli avvocati di Bonura. Interviene anche il presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa affermando che “il provvedimento è stato preso sulla base della normativa ordinaria applicabile a tutti i detenuti, anche condannati per reati gravissimi, a tutela dei diritti costituzionali alla salute e all’umanità della pena”. Nino Di Matteo, consigliere togato del CSM e PM che ha seguito il processo sulla Trattativa Stato-Mafia, dichiara che “lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte“. Il ministro Bonafede chiarisce che “si tratta di decisioni assunte dai giudici nella loro piena autonomia“. La ministra dell’interno Luciana Lamorgese difende a spada tratta il decreto Cura Italia specificando che questo “prevede la detenzione domiciliare nell’ipotesi di una pena detentiva non superiore ai 18 mesi ed è escluso per i detenuti al 41 bis“.
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Le altre scarcerazioni
Passano i giorni e i giornali danno notizia di altre scarcerazioni. Il primo caso è quello di Vincenzino Iannazzo, 65enne ritenuto boss della ‘ndrangheta, posto agli arresti domiciliari dai giudici della Corte d’assise di Catanzaro. Segue il caso di Pasquale Zagaria, 60 anni, recluso al 41 bis con una condanna definitiva a 20 anni. La decisione viene presa dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari a causa dell’impossibilità di garantire a Zagaria, all’interno delle strutture sanitarie sarde, la prosecuzione del percorso terapeutico di cui ha bisogno per una grave patologia. La questione, in realtà, è ben più complessa. I magistrati infatti, per evitare la scarcerazione, chiedono in primo luogo il trasferimento del detenuto in un altro istituto, ma dal DAP non arriva nessuna risposta. Il Tribunale a questo punto opta per la detenzione domiciliare. La polemica non si placa. La Repubblica titola così un suo articolo: “I 376 boss scarcerati. Ecco la lista riservata che allarma le procure”. Il dato è in realtà sbagliato. I boss al 41 bis scarcerati non sono 376, ma tre. I restanti 373 detenuti si trovano all’interno del circuito detentivo di alta sicurezza, non al 41bis. Di questi, 196 sono in attesa di giudizio. In questo caso sono i giudici delle indagini preliminari o dei processi in corso a stabilire che, a causa dell’emergenza sanitaria, la custodia cautelare in carcere metterebbe seriamente a rischio la loro salute, mandandoli ai domiciliari. Gli altri 177 hanno invece una condanna definitiva. Nel loro caso a decidere sono stati i magistrati di sorveglianza, in base alla legge e alle convenzioni internazionali in materia di diritti umani.
- Il decreto
In seguito al grande clamore mediatico, il primo maggio Basentini si dimette come direttore del DAP. Al suo posto arriva Dino Petralia. Il suo vice è Roberto Tartaglia. Il 6 maggio Bonafede fa sapere di essere al lavoro per “riportare in carcere i tanti detenuti mafiosi che, grazie al coronavirus, sono riusciti a ottenere i domiciliari. L’indipendenza dei giudici di sorveglianza è sacra, applicano la legge. Ma le leggi le scriviamo noi”. Il ministro annuncia la scrittura di un decreto che “permetterà ai giudici, alla luce del nuovo quadro sanitario, di rivalutare l’attuale persistenza dei presupposti per le scarcerazioni dei detenuti di alta sicurezza e al 41 bis”. “Sono stupito dal fatto che i magistrati di sorveglianza non vengano considerati come gli altri colleghi. Immagini se un giorno, per decreto legge, si stabilisse che una sentenza di condanna o di assoluzione va rivalutata. Cosa succederebbe? Ci sarebbe una sollevazione. Una legge non può dire che una decisione del giudice è sbagliata” commenta Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze. Il sistema studiato da Bonafede dovrebbe prevedere una sorta di “revisione mensile” dei provvedimenti presi dalla magistratura di sorveglianza. Pasquale Bronzo, docente di diritto penitenziario all’Università Sapienza di Roma, afferma però che “già oggi, con le norme esistenti, un magistrato di sorveglianza può modificare la decisione che ha preso. Soprattutto per i ristretti al 41 bis il magistrato ha quindi la possibilità di rivedere il provvedimento. Anzi, se le condizioni cambiano, deve farlo”. Sul tema interviene nuovamente anche Bortolato: “Quando la concessione dei domiciliari sta per scadere, se un detenuto chiede la proroga, il magistrato è tenuto a verificare se ci sono le condizioni per concederla. Altrimenti torna in carcere. E’ tutto già scritto nei codici, così come la possibilità di concedere il differimento della pena ai detenuti che stanno male. La Costituzione garantisce la tutela della vita. Di tutti, anche dei detenuti, indipendentemente dalla pena che stanno scontando. Il magistrato competente ha il già il potere di cambiare il provvedimento, senza bisogno di ulteriori norme”.
- Le comunicazioni di Tartaglia
Il 7 maggio il neo vicecapo del DAP Roberto Tartaglia invia a Bonafede una nota con la lista di altri 456 detenuti ristretti al carcere duro in regime “di alta sicurezza”, che hanno presentato istanza di scarcerazione a causa dell’emergenza sanitaria. Di questi 456, 225 sono detenuti definitivi e 231 sono detenuti in attesa di primo giudizio, imputati, appellanti e ricorrenti.
- Considerazioni
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Non possono non apparire preoccupanti, ai nostri occhi, le frasi pronunciate dal ministro della giustizia in relazione alla volontà di dare vita a un decreto per “riportare in carcere i detenuti mafiosi che, grazie al coronavirus, sono stati posti agli arresti domiciliari”. Si tratta di una sorta di rimedio della politica a una decisione presa dalla magistratura. Ma è inammissibile anche solo tenere in considerazione l’ipotesi che una legge corregga un provvedimento della magistratura.
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In un articolo uscito su Tiscali News il 9 maggio 2020 firmato da Claudia Fusani un vicequestore intervistato ha detto che “quelle 376 scarcerazioni sono una sconfitta per lo stato di diritto, per gli uomini e le donne delle forze di polizia che magari hanno impiegato anni per rintracciarli e arrestarli interrompendo latitanze più o meno dorate, per i magistrati che hanno svolto le indagini e condotto i processi, per i cittadini che pagano le tasse per avere, anche, la certezza delle pena”. Partendo dal presupposto che la certezza della pena si ha anche nel caso degli arresti domiciliari, giudicare “una sconfitta per lo stato di diritto” il fatto che un detenuto venga posto agli arresti domiciliari a causa di gravi motivi di salute suona di per sé come un ossimoro. Il fatto che a pronunciare queste parole sia un vicequestore non può che destare preoccupazione. E’ la Costituzione a stabilire che il diritto alla salute debba essere bilanciato con il diritto alla sicurezza. Sono gli articoli 146 e 147 del codice penale che prevedono misure di differimento della pena in caso di incompatibilità con il regime carcerario dovuta a condizioni di salute di eccezionale gravità.
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E’ utile ricordare che nell’ottobre del 2018 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per aver continuato ad applicare il regime speciale di detenzione del 41 bis al boss Bernardo Provenzano nell’arco temporale presente tra il 23 marzo 2016 e il 13 luglio dello stesso anno, giorno della sua morte. Ed è sempre la CEDU a chiedere al nostro paese di garantire che siano i giudici a decidere caso per caso, “con riguardo al contemperamento delle esigenze di tutela della sicurezza pubblica e a quelle di salvaguardia dei diritti delle persone detenute”.
Come spesso è accaduto, anche questa volta il dibattito che si è sviluppato attorno a temi come carcere e mafia ha assunto toni e posizioni molto dure e rigide. Molte voci si sono sollevate contro le decisioni prese dai giudici in relazione alla scarcerazione di molti detenuti. Altrettante voci hanno chiesto l’immediata revoca di queste misure. “Devono rimanere in carcere”, è l’urlo che si è sollevato. Noi non riusciamo ad accodarci a questo coro. Per vari motivi. In primo luogo non possiamo non sottolineare quanto, ancora una volta, la politica si sia dimostrata non in grado di affrontare un tema tanto delicato quanto importante come quello dei boss al 41 bis e al regime di alta sicurezza. Una politica incapace, ma anche una politica disposta a cavalcare la rabbia sociale per puntare il dito contro la fazione politica avversaria. Il ministro Bonafede ha posto sul piatto l’ipotesi che la politica possa intervenire sulle decisioni prese dalla magistratura. E questa cosa è grave e preoccupante. In questo quadro, inoltre, non possiamo non porre l’attenzione anche sulle modalità attraverso la quale la vicenda sia stata seguita dai giornali. Titoli sensazionalistici, dati sbagliati, fatti disconnessi ma collegati artificiosamente, teorie complottiste che legano le rivolte di marzo con la scarcerazione di massa non hanno fatto altro che fomentare sempre più un dibattito che troppe volte ha lasciato in disparte l’importanza della Costituzione e il ruolo di uno stato di diritto. Non diciamo questo per giustificare le azioni di Caino. Non spetta a noi farlo. Ma non possiamo non condannare il sempre più comune processo di “de-umanizzazione” che viene posto in essere nei confronti della popolazione carceraria. Anche nei confronti dei boss mafiosi. E’ questo atteggiamento che traccia il confine netto tra le regole mafiose e le leggi di uno stato di diritto.
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