“La cardiopatia di cui soffre Riina lo espone costantemente al rischio di morte improvvisa”: questo si legge nella perizia dei medici dell’Ospedale Maggiore di Parma, firmata dal dottor Riva. Secondo la perizia, poi, il “boss” è vigile e collaborante nonostante si presenti “fragile” e “dall’eloquio scadente”.
Riina, 86 anni, dal 25 gennaio dell’anno scorso è ricoverato in ospedale in regime detentivo per gravi problemi cardiaci e per un tumore ai reni molto avanzato, e per questo i legali del boss Luca Cianferoni e Mirko Perlino hanno chiesto al tribunale di Bologna di valutare il differimento della pena, o almeno, la detenzione domiciliare.
Si tratta, in sostanza, della possibilità di trasferire Riina in una struttura in cui possa essere assistito quotidianamente e in maniera continuativa, ma diversa dal reparto di ospedale in cui si trova pur sempre detenuto. I legali del boss, comunque, hanno ribadito che nessuno ha formulato l’ipotesi che Riina possa tornare a casa a Corleone dalla sua famiglia, perché le precarie condizioni di salute non lo permetterebbero.
A questa richiesta si è opposto il Procuratore Generale Ignazio De Francisci.
Nel frattempo, il Tribunale di Milano ha chiesto urgentemente che la perizia e la cartella clinica del boss fosse messa a disposizione dai giudici. A carico di Riina, infatti, è aperto anche un’altro procedimento per minacce nei confronti del direttore del carcere di Opera, Giacinto Siciliano. I giudici di Milano, dopo aver esaminato la perizia, hanno respinto la richiesta della difesa di sospensione del processo: Riina ha la piena capacità di intendere e di volere e quella di stare a giudizio.
Nella querelle è intervenuta la Presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi, dicendo che Riina resta il Capo di Cosa nostra, che conserva immutata la sua pericolosità, che è in grado di intendere e di volere e che comunque non esiste il diritto di morire fuori dal carcere.
Rosy Bindi si è recata personalmente a vedere le condizioni di salute di Riina senza avvertire il personale sanitario e con lei c’erano i due vicepresidenti della Commissione Antimafia Fava e Gaetti. La Presidente ha voluto verificare se il detenuto fosse curato in una struttura adeguata per le sue condizioni di salute e se il personale potesse prendersi cura in maniera esaustiva del boss.
La stessa Bindy ha ritenuto che “Riina possa tranquillamente ricevere tutte le cure in ospedale e morire dignitosamente quando la cosa avverrà”.
Lo Stato deve garantire cure dignitose a tutti i cittadini, anche a chi come Riina è stato condannato all’ergastolo in regime del 416 bis.
Qualche domanda però si impone: che impatto avrebbe una sua ipotetica scarcerazione sul mondo mafioso di cui Riina fa parte? Che segnali manderebbe?
Potrebbe aprire una strada nuova ad altri boss mafiosi come Riina per poter usufruire di misure detentive diverse dal carcere?
Come cambierebbero gli scenari dopo una decisione di scarcerazione, con Matteo Messina Denaro ancora latitante?
Tutti questi dubbi resteranno senza risposta dato che il 19 luglio 2017, proprio nel giorno del venticinquesimo anniversario della strage di Via D’Amelio dove persero la vita il Giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, il tribunale di sorveglianza di Bologna ha rigettato la richiesta differimento della pena o di detenzione domiciliare per Riina. Riina resta detenuto al 416 bis nel reparto riservato ai carcerati dell’Ospedale di Parma.
Il Tribunale di Sorveglianza, motivando per la seconda volta il rigetto dell’istanza, scrive: “Non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero”. E aggiunge che nonostante l’età e le condizioni di salute non si può escludere che Riina “possa commettere ulteriori gravi delitti”.
I difensori di Riina hanno già annunciato il ricorso.
Quel che è certo è che Riina, nonostante i suoi 86 anni e i suoi problemi di salute, viene ancora ritenuto dai giudici pericoloso socialmente e “degno di nota”. E sono le sue stesse parole a confermarlo. La sua battuta alla moglie disegna perfettamente l’uomo e la sua storia: “Non mi pento, potessi farmi 3000 mila anni di carcere”.
La decisione del Tribunale di Bologna rende senz’altro questo 19 luglio una data da segnare in calendario.