Pochi giorni fa, esattamente il 20 aprile, è stata pronunciata una sentenza storica a Palermo: quella relativa al processo sulla trattativa Stato-mafia.
Pesantissime le condanne, inaspettate in alcuni casi. Si è trattato di un processo lunghissimo, iniziato il 7 marzo 2013 e terminato dopo più di cinque anni. Centinaia le udienze, decine le testimonianze in aula, tanti i colpi di scena e troppi, infine, gli attacchi sopportati dal pool di magistrati che ha istruito il processo. Antonino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene: sono stati loro ad aver condotto, nonostante mille difficoltà, un processo che sin dall’inizio è stato attaccato da più fronti, dalla politica vecchia e nuova, sia dalla sinistra che dall destra senza esclusione di colpi.
Questo processo, in realtà, non si poneva come obiettivo principale quello di stabilire o meno l’esistenza di una trattativa tra la mafia e lo Stato nei primi anni Novanta, già riconosciuta con la sentenza, depositata il 2 marzo 2012, che decretò la condanna, emessa dalla Corte d’Assise di Firenze nei confronti di Francesco Tagliavia per concorso nelle stragi del 1993. La sentenza recitava così:
“Una trattativa indubbiamente ci fu e venne impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”.
Il processo di Palermo aveva invece come obiettivo quello di individuare le responsabilità penali dei protagonisti di tale trattativa. “Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”: è questo il reato contestato su cui si è basato l’intero impianto accusatorio del procedimento penale. In questa trattativa, secondo quanto ricostruito, gli imputati avrebbero svolto ruoli diversi: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà sarebbero stati gli autori del delitto principale, commettendo la condotta tipica di minaccia al corpo politico dello Stato. Gli uomini dello Stato imputati, invece, avrebbero fornito un consapevole contributo alla realizzazione di tale minaccia, con condotte di sostegno al comportamento di boss mafiosi: si tratta in questo caso dei membri del Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonio Subranni e del politico Marcello Dell’Utri.
Pesantissime, come detto, le condanne inflitte: 12 anni per Mori, Subranni e Dell’Utri, 8 anni per De Donno, 28 per Bagarella. Assolto, invece, il politico Nicola Mancino. Massimo Ciancimino, supertestimone del processo, è stato invece condannato a 8 anni per calunnia e allo stesso tempo assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Nonostante sia necessario attendere qualche mese prima di poter leggere le motivazioni della sentenza, alcune riflessioni sono doverose. In primo luogo, grazie a questo processo, abbiamo avuto modo di ripercorrere gli anni delle stragi in maniera del tutto diversa da come ci sono stati raccontati. Abbiamo ascoltato i protagonisti diretti e abbiamo rivissuto quel periodo analizzandolo da un’altra prospettiva che in questi 25 anni troppe volte è stata volutamente oscurata.
La seconda riflessione, che ben si lega alla prima, vuole porre l’attenzione sugli attacchi che tale processo ha subito. Attacchi, come detto, provenienti da più fronti coadiuvati da esperti giuristi e storici che hanno tentato in tutti i modi di indebolire la struttura processuale con tesi e teorie che, come dimostrato dalla sentenza, hanno retto ben poco.
In conclusione possiamo affermare che ancora una volta Palermo restituisce dignità a questo Paese, trovando la forza di mettere sotto processo e condannare una parte di quello Stato che, mentre delle bombe facevano a brandelli i corpi di magistrati, poliziotti, carabinieri e semplici civili, stava seduto ad un tavolo con boss e mafiosi nel tentativo, appunto, di “abbattere quel muro contro muro con la mafia”. Antonino Di Matteo ha recentemente spiegato come, per fare ancora più luce su quegli anni, servirebbe un “pentito di Stato”. Intanto però, nonostante tutto, questo Stato ha avuto il coraggio di processare e condannare se stesso. Ed è già un passo in avanti.