A voi la quarta puntata di #microfonoinmano, la nuova rubrica di Mafie sotto casa: l’intervista a Attilio Bolzoni.
Attilio Bolzoni inizia a scrivere per “L’Ora” alla fine degli anni Settanta e da allora non ha più smesso di fare il giornalista. Attualmente membro della redazione de “La Repubblica”, ne cura il blog “Mafie”, che raccoglie notizie e voci diverse con l’obiettivo di fornire una visione complessa e approfondita del fenomeno mafioso.
Vorrei partire dalla tua conoscenza dell’evoluzione del fenomeno mafioso e in particolare da un tema che hai affrontato in diversi dei tuoi scritti. Sostieni infatti che dopo le stragi del ‘92 ci fu una forte repressione dal punto di vista poliziesco-giudiziario di quella mafia, la mafia di Riina, ma che tuttavia Cosa Nostra non è stata sconfitta definitivamente. Abbiamo quindi ora il problema di capire che cosa è rimasto di Cosa Nostra, che cosa è oggi questa “nuova mafia”: anche in una tua pubblicazione recente, La mafia dopo le stragi, Melampo edizioni, hai raccolto una serie di contributi su questo argomento. Ti chiedo quindi: quali sono secondo te le caratteristiche della mafia oggi, cosa sappiamo e cosa non sappiamo?
Intanto c’è un dato: nella storia d’Italia, per la prima volta lo Stato italiano ha una reazione permanente e continuativa contro Cosa Nostra siciliana all’indomani delle stragi del ‘92. Prima era a correnti alternate: uccidevano il generale Dalla Chiesa, uccidevano Pio La Torre, uccidevano Boris Giuliano, uccidevano un giudice, uccidevano Mattarella, iniziava la repressione e dopo pochi mesi tutto tornava a poco a poco come prima. Per la prima volta, e sono passati quasi ventisei anni ormai dall’uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino – da questo momento sono da querelare tutti quelli che li chiamano Giovanni e Paolo, sono due funzionari dello Stato, magistrati della Repubblica, il dottor Giovanni Falcone e il dottor Paolo Borsellino, hanno fatto carne di porco delle loro figure, le hanno destrutturate con la retorica, sono stati uccisi per aver fatto il loro lavoro fino in fondo, cosa che altri non hanno fatto – lo Stato Italiano ha reagito dal punto di vista poliziesco-giudiziario, senza più andare a corrente alternata.
Da quel 19 luglio, o meglio dal 20, il giorno dopo, ad oggi, mentre stiamo parlando, c’è una repressione costante di altissimo livello nelle Procure della Repubblica, chi meglio chi peggio, così come negli apparati di polizia, dopo oltre un quarto di secolo c’è un sapere, un accumulo di conoscenza della materia che non è paragonabile a 25, 35, 40 anni fa, quindi da questo punto di vista l’azione repressiva dello Stato è stata non efficace, ma efficacissima. Non c’è stata partita, perché quella che era l’organizzazione criminale più potente del mondo occidentale dal punto di vista militare è stato destrutturata. Quella organizzazione criminale: quella che era stata conquistata dai Corleonesi, Corleonesi che rappresentano un’anomalia assoluta nella storia della mafia perché attaccarono lo Stato – anche se ho cambiato opinione in questi mesi perché quello che ho sempre sostenuto per anni, cioè che sia stato un attacco allo Stato, è stato in realtà l’attacco a quei pezzi dello Stato che si mettevano di traverso, quindi non a tutto lo Stato: al dottor Falcone, al dottor Borsellino, all’onorevole Pio La Torre, al dottor Boris Giuliano, al generale Dalla Chiesa, al dottor Terranova, al procuratore Costa, al capitano Basile, al capitano D’Aleo, al presidente Mattarella. Quindi non hanno attaccato lo Stato, ma quei pezzi dello Stato che avevano capito che stavano cambiando gli equilibri politico-criminali e si erano messi di traverso. Pezzi dello Stato, non tutto lo Stato, perché una parte dello Stato era ed è rimasto amico loro.
Finita questa spaventosa parentesi con tutti quei morti che ci sono stati in Sicilia, c’è una nuova mafia? Si interrogano tutti, gli studiosi, i magistrati. Ma è esattamente la vecchia mafia di sempre: la mafia non cambia mai, si è riappropriata della sua natura, ha riscoperto il suo DNA che non è quello di fare stragi, di usare la violenza alle armi in maniera indiscriminata, è quella di stare quatta quatta, di fare accordi col potere politico-imprenditoriale, quindi si è riappropriata di se stessa, è tornata quella di sempre. Certo non si può vestire come cent’anni fa col farfallino e la bombetta, o come cinquant’anni fa con la lupara, ha cambiato pelle, ha cambiato vestito ma è sempre la stessa, è sempre quella di prima: la nuova mafia è identica a quella di cento, centocinquant’anni fa. La mafia ha questa caratteristica, che cambia sempre, ma rimane sempre se stessa, non rinnegando la propria natura, quindi si adatta al cambiamento della società naturalmente. Questo caso siciliano, il caso Montante, è un esempio di un sistema criminale con promiscuità con alti magistrati, con funzionari del Viminale, con ufficiali dei Servizi Segreti, con ufficiali dell’Arma, con ufficiali della Finanza, con il potere economico, con il potere regionale della burocrazia, con il potere della stampa: per la prima volta in un un rapporto di polizia giudiziaria c’è un capitolo di 63 pagine che riguarda i giornalisti, complici, favoreggiatori o mendicanti di favori. Quindi la situazione che c’è oggi, sotto una luce completamente diversa perché è più luminosa, più bella, più profumata, più pettinata, è esattamente la situazione che c’era prima dei delitti eccellenti a Palermo. Questa è la mia opinione.
Grazie di questa tua lettura. Per ora abbiamo parlato soprattutto di Cosa Nostra, ma mentre c’era questa lotta, abbastanza evidente nei media, a Cosa Nostra, nell’ombra, meno conosciuta, cresceva la ‘Ndrangheta e si ramificava, si radicava anche al Nord e all’estero. Chi si interessa un po’ al tema ormai lo dà per assodato, anche grazie alle indagini e ai processi, ma vorrei chiederti qual è la tua percezione, perché l’impressione è che se ne continui a parlare a singhiozzo, tranne per poche eccezioni di giornalisti che ci hanno messo la faccia e la vita…
Dunque, intanto i sistemi criminali – la ‘Ndrangheta, la Camorra (anche se non è più un sistema), Cosa Nostra – non sono slegati uno dall’altro, si parlano, dialogano, fanno traffici e commerci. Sono due i punti essenziali: primo, che la ‘Ndrangheta per quarant’anni ha considerato la Calabria il cortile di casa propria, per cui nessuno se n’è occupato; secondo, che non ha fatto le stragi. Poi bisogna partire dalla considerazione che il leader del traffico degli stupefacenti di solito è anche leader del cartello criminale; più ricco sei e più comandi, e la ‘Ndrangheta da questo punto di vista negli ultimi quindici anni ha accumulato delle ricchezze straordinarie col traffico della coca, essendo l’organizzazione europea sicuramente più interessata a questi commerci. Quindi è diventata ricchissima e si è parlato tanto di ‘Ndrangheta in questi anni come l’organizzazione più potente e più forte. Allora se le risultanze investigative giudiziarie dicono questo – perché dicono questo, non c’è dubbio, non solo per il controllo che ha nel territorio in Calabria ma anche per le sue diramazioni dal centro al nord Italia, quindi parliamo di Roma, dell’Emilia Romagna, della Lombardia, del Piemonte e della Liguria, e non solo, anche per il radicamento che ha nei cinque continenti, che Cosa Nostra non ha – nonostante queste evidenze investigative sfacciate, io ho un’altra opinione. La ‘Ndrangheta è pericolosissima, oltretutto è stata “scoperta” pochi anni fa dal dottor Pignatone dal dottor Prestipino – perché prima la lotta alla ‘Ndrangheta era all’età della pietra – con una visione strategica da parte di alcuni rappresentanti dello Stato, magistrati, poliziotti, carabinieri, finanzieri, una squadra che era già stata a Palermo e che poi si è trasferita a Roma e ha scoperto Mafia Capitale.
Bene, nonostante queste evidenze investigative sfacciate, io ritengo che le intelligenze delle mafie siano ancora in Sicilia, dove la mafia si è americanizzata. Ci sono dei casi molto evoluti, come quello catanese, dove c’è un muro invalicabile da qualche anno tra le piazze di spaccio, l’attività tradizionale del racket delle estorsioni e la famiglia Santapaola, che è sempre quella che comanda, che fa affari legali. In Sicilia c’è stato un ricambio di cultura mafiosa, si sono accorti ad esempio che l’antimafia poteva essere un capitale anche per la mafia, si sono appropriati delle parole d’ordine dell’antimafia e in Sicilia è nata una figura assai curiosa, quella del mafioso antimafioso. In Sicilia su 5 milioni e mezzo di siciliani non troverai più un mafioso, sono tutti antimafiosi. Perché tutto questo non è accaduto in Calabria? Perché in Sicilia sono accadute due cose che non si possono più cancellare: uno è quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che è stato il maxiprocesso ideato da Giovanni Falcone – nel 1984 l’ordinanza di rinvio a giudizio, il processo, la sentenza di fine gennaio del ‘92 che scolpisce nel marmo della giurisprudenza che la mafia siciliana esiste, quindi la mafia non si può più nascondere – e poi ci sono state le stragi, il 23 maggio e 19 luglio di 26 anni fa. Di fronte a questi due avvenimenti straordinari e drammatici non puoi più nascondere l’esistenza della mafia, quindi devi trovare un’altra strada. Tutto questo in Calabria non c’è stato: né un maxi processo – a quel tempo – né, fortunatamente, quella mattanza istituzionale che c’è stata in Sicilia, quindi c’è spazio in Calabria per il revisionismi del tipo “Ah, la mafia di una volta era buona!”.
Noi non possiamo dire “La mafia una volta era buona”: era quella di Riina, di Bagarella, era la mafia più terribile, quindi hanno elaborato altre cose, si sono adeguati alla reazione. I Corleonesi sono scomparsi se togliamo l’ultimo, Matteo Messina Denaro – latitante da giugno 1993, ha superato Riina in latitanza -; a parte questo sono tornati i vecchi, sono usciti dal carcere quelli che hanno scontato le pene del maxiprocesso e di quelli successivi e soprattutto sono tornati i rampolli dell’aristocrazia mafiosa. Allora non c’era la legge per togliere i beni anche ai parenti, che ora sono carichi dei soldi ricavati dai grandi traffici di stupefacenti degli anni ‘60-’70-’80, quindi c’è una mafia siciliana che sicuramente è stata in grande sofferenza in questi anni, d’identità ed economica, ma quando è morto Riina hanno festeggiato, perché si sono liberati dell’uomo che li aveva portati in un vicolo cieco con quelle stragi. E quindi io credo che ancora le intelligenze strategiche, collettive, della mafia siano in Sicilia, nonostante questi risultati giudiziari incontestabili, credo che abbia elaborato il lutto e che si sia evoluta
In effetti leggevo che secondo te non sarebbe Matteo Messina Denaro l’erede di Riina, ma probabilmente sarà qualcun altro o è già qualcun altro…
Non è lui, per due ragioni: primo perché non è palermitano, secondo perché è un corleonese e la città di Corleone nella geografia mafiosa verrà cancellata per sempre dell’atlante di Cosa Nostra, perché ha portato troppi guai: Riina ha fatto più danno di Buscetta. Con quella strategia delle stragi, non solo quelle del ‘92 ma anche quelle del ‘93 e tutti gli omicidi eccellenti che le hanno precedute, ha preso per mano Cosa Nostra e l’ha portata in un vicolo cieco dal quale non è più uscita. Adesso c’è la mafia di sempre, la mafia che non uccide quasi mai con le mani, ma che uccide con la diffamazione, con il silenzio, con l’omertà, con il lavoro, con gli appalti che dà e che non dà. Una mafia che uccide in silenzio, con morti che non si vedono. Ti faccio un esempio: se vai in Sicilia trovi gente come i tuoi genitori, persone normali che magari non riescono ad avere un mutuo, pur avendo una condizione economica decente, perché ci sono indagini antimafia pilotate; il sistema Montante ha fatto dei controlli fiscali a persone perbene, annientandole. C’è la mafia della Regione siciliana, quartier generale delle mafie, c’è sempre stata, non è che si sia liberata perché non c’è più Totò Riina, l’intelligenza collettiva di Cosa Nostra là c’è.
Continuando il percorso dell’evoluzione mafiosa, passiamo a Mafia Capitale: da poco la sentenza della Corte d’Appello ha riconosciuto il reato di associazione mafiosa, ribaltando sul punto la pronuncia di primo grado. Qual è, se c’è, la particolarità che emerge in questo processo rispetto al modo in cui abbiamo pensato alle mafie fino ad oggi?
Questa indagine secondo me ha il pregio assoluto di essere – insieme all’indagine su Montante in Sicilia, che però è un sistema paramafioso perché il 416 bis non è stato contestato al momento – una elaborazione molto avanzata, forse il modello più avanzato di analisi investigativa sulle mafie oggi in Italia, perché unisce le mafie al sistema corruttivo della politica, molto trasversale tra destra, sinistra, centro, sotto e sopra. La forza intimidatrice è stata riconosciuta, il vincolo associativo pure, così come il rapporto di sottomissione che la classe politico-burocratica aveva verso due personaggi, il Nero e il Rosso, estremista di destra e boss delle cooperative rosse, che però andavano d’amore e d’accordo. Questo tipo di indagine secondo me è stata formidabile.
I rapporti fra la mafia e la politica sono profondamente cambiati il giorno in cui hanno ucciso Salvo Lima a Palermo nel ‘92: prima i rapporti riguardavano alcuni partiti e altri no, da lì in poi è diventato tutto più trasversale. Innanzitutto, adesso si privilegiano i rapporti sul territorio, con le amministrazioni locali, che sono meno visibili e dove ci sono più soldi, rispetto al rapporto con i grandi personaggi politici che sono sempre sotto i riflettori. Poi spesso non c’è più intermediazione in questo: ad esempio, in certi posti in Calabria non c’è il politico che fa da intermediario per gli interessi della ‘Ndrangheta, è lui stesso la ‘Ndrangheta. La vicenda di Mafia Capitale è singolare e significativa, ma anche in Sicilia se tu guardi i nomi, chi sale ha sempre qualche contatto familiare o ha a che fare con i nomi della mafia tradizionale, c’è un ricambio di facciata, noi diciamo che si sono “ripittati”.
Dopo l’altalena di verdetti, che non riguarda solo i processi di Mafia Capitale ma anche i Fasciani di Ostia, credo che le indicazioni della Cassazione su altri processi simili, sulle piccole mafie, siano univoci, quindi penso che non ci saranno vere grandi grandi sorprese in Cassazione sul punto. La cosa curiosa di Mafia Capitale è che in primo grado hanno preso botte di vent’anni e tutti festeggiavano, poi hanno dimezzato le pene in appello ed erano tutti addolorati, quindi vuol dire che c’è qualcosa che non va, significa che questo 416 bis non se l’aspettavano. Questa sentenza è un varco, non è la fine di una vicenda ma l’inizio di un’altra, ci sarà altro da scoprire.
A proposito di questo, un apporto importante in molte di queste indagini, soprattutto al Nord, è stato dato dalle inchieste; volevo chiederti quindi cosa pensi del ruolo dei giornalisti.
Io ci andrei piano: è capitato, è vero, qualche volta; come scrivo anche nella prefazione di Giornalisti in terre di mafia in cui parlavo di questo. Partiamo da una cosa: quando la mafia spara, quando fa le stragi, quando usa il kalashnikov, è facile raccontare; è facile raccontare anche la testata di Roberto Spada a quel nostro collega – a cui va la mia massima solidarietà, gli Spada fanno veramente schifo, come i Casamonica – che è stata 3-4 settimane sui telegiornali, ma delle mafie alte non parla nessuno in Italia. Tra i giornalisti c’è una superficialità nel raccontare le mafie che per me è terrificante, perché le mafie lerce, le mafie sputtanate vengono raccontate bene, ma le mafie incensurate? I tempi della giustizia sono quelli che sono ed è giusto che siano così, fanno le indagini, richiedono il rinvio a giudizio, assolvono, condannano, ma il compito di un giornalista non è quello di fare copia-incolla con gli atti dei magistrati, la vicenda giudiziaria ha altri binari.
Da questo punto di vista si racconta poco in Italia, si racconta addirittura più nelle vostre realtà che in quelle del Sud, da voi ad esempio ci sono giornalisti che hanno cominciato a raccontare le mafie in Lombardia, in Emilia Romagna e Veneto, hanno cominciato ad avere un loro piccolo sapere, le raccontano, in un posto dove non ve ne frega una mazza della mafia, dove le mafie sono piacenti, seduttive, non sparano, portano tanti soldi e organizzano le feste patronali, sponsorizzano sagre paesane, squadre di calcio, quindi quei giornalisti che non si voltano dall’altra parte sono giornalisti che passano un po’ per mattacchioni oppure in cerca di notorietà. In generale invece c’è un atteggiamento di grande superficialità dove si racconta solo e soltanto la mafia presente nelle carte giudiziarie e investigative, mentre in Italia è tutto alla luce del sole, eppure si aspetta sempre il magistrato. Credo ci siano dei grandi ritardi.
Ti consiglio di leggere la prefazione del libro, poi ci sono tutti i pezzi di vari giornalisti, colleghi che raccontano, ma nella prefazione c’è scritto questo: “Quando le grandi organizzazioni criminali si nascondono è più difficile raccontarle, meno sparano e meno finiscono sui giornali. Quando non parlano con il linguaggio delle armi, uccidendo e organizzando stragi e attentati, le mafie è come se non ci fossero, vengono riconosciute solo quando non portano la maschera”. In questi anni si è fatto un gran rumore intorno a fenomeni criminali che si sono proposti sulla scena violentemente e si è fatto un gran silenzio su quei sistemi mafiosi e paramafiosi legati ai poteri legali”.
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E non perderti l’appuntamento del prossimo mese con #microfonoinmano, le interviste di Mafie sotto casa 🙂