Di Giovanni Tizian, pubblicato su “Domani” il 25/01/2022
L’Emilia Romagna? «Terra di mafia».
In molti storceranno il naso, esclameranno: «Che esagerazione!». Comprensibile se i nuovi interpreti della criminalità mafiosa sono imprenditori ben vestiti, con fluente parlantina in lingua italiana (il dialetto è riservato solo per riunioni più intime di cosca) e frequentatori della borghesia delle cittadine tagliate dalla via Emilia. Non si tratta di teoria dell’evoluzione mafiosa, disciplina nobile ma astratta, piuttosto di una fotografia delle relazioni imbarazzanti emersa dalle indagini antimafia degli ultimi dieci anni: la maggior parte arrivate a sentenza confermano questa compenetrazione tra due mondi, criminale e legale.
La definizione «distretto di mafia» è stato coniato pochi giorni fa dalla procuratrice generale di Bologna, Lucia Musti, dall’inizio della sua carriera in prima linea nella lotta alle cosche nordiche: fu tra le prime a mettere alla sbarra il famigerato clan dei casalesi, che a Modena aveva messo radici già negli anni ‘90 e poi si era inabissato fondendosi con il tessuto economico ricco e gentile della provincia modenese. Il clan dei casalesi è il gruppo criminale reso celebre dal best seller Gomorra di Roberto Saviano. Musti da qualche tempo è la guida della procura generale, tra le pochissime donne a ricoprire questo ruolo direttivo (4 in tutta Italia) seppure da facente funzioni in attesa della nomina del sostituto dell’ex procuratore Ignazio De Francisci andato in pensione.
«Distretto di mafia» «A quest’ultimo proposito è il caso di evidenziare che il Distretto dell’Emilia Romagna è – a buon titolo – un Distretto di mafia, in quanto la Direzione Distrettuale Antimafia istruisce “maxi indagini” e si celebrano maxi processi». Non tutti condividono la lettura di Musti, «esagerata» per una larga parte dell’imprenditoria locale e dei professionisti, che sono restii nell’ammettere l’esistenza di una mafia che usa le professioni per gestire i propri affari puliti. La ‘ndrangheta dei colletti bianchi, termine logoro ma che serve a indicare la responsabilità di imprenditori, manager, avvocati, commercialisti, notai, consulenti finanziari, giornalisti che hanno deciso di non vedere e preferiscono non farsi troppe domande difronte a proposte vantaggiose sul piano economico ma eticamente deplorevoli. Il negazionismo in Emilia è radicato tanto quanto lo sono le cosche. Negare il fenomeno, ridurlo a delinquenza sporadica serve a costruire l’immagine di una regione impeccabile: l’apparenza trionfa sulla realtà. «Dobbiamo evidenziare in questa sede che all’iniziale infiltrazione delle mafie nella nostra regione delle associazioni mafiose è succeduto l’insediamento fino all’attuale radicamento», ha detto Musti durante l’intervento dedicato all’apertura dell’anno giudiziario a Bologna. E ha aggiunto: «Uso questo termine perché, dalla corretta lettura delle indagini e dei processi contro la ndrangheta che si sono svolti nella regione Emilia Romagna, è evidente che non è più una questione di presenza di mafiosi, di diffusione della mentalità, ma piuttosto di condivisione del metodo mafioso anche da parte di taluni cittadini emiliano-romagnoli, imprenditori e colletti bianchi, ovverosia professionisti, i quali hanno deciso che “fare affari” con la ndrangheta è utile e comodo».
Per poi concludere: «Alla condivisione è seguita la nascita di un metodo nuovo mafioso autoctono dell’Emilia Romagna che risente fortemente del territorio altamente produttivo che annovera numerose eccellenze anche mondiali che hanno fatto dell’Emilia Romagna una “preda ambita».
«Esagerazione» «Mi pare una rappresentazione eccessiva, anche se rispetto l’interpretazione della dottoressa Musti», è il punto di vista dell’avvocato Roberto D’Errico, presidente degli avvocati di Bologna. In una intervista al Resto del Carlino si fa interprete del sentire comune nella sua categoria, spesso impegnata a difendere i presunti mafiosi nei maxi processi emiliani. Ma trova d’accordo anche una larga fetta della politica, non tutta ma una buona parte, poco incline ad ammettere la sconfitta, provocata da decenni di silenzi, sottovalutazioni e in alcuni casi collusioni. D’Errico ha aggiunto: «Le infiltrazioni e le condotte penalmente rilevanti ci sono, i procedimenti lo testimoniano. Ma sono episodi che non comportano dal punto di vista storico, politico, culturale e giudiziario un controllo sulla società da parte delle cosche, come in altre parti d’Italia». Questo passaggio denota poca conoscenza della storia giudiziaria degli ultimi 20 anni: le più importanti inchieste antimafia, anche quelle condotte dalle procure del sud, approdano nei mercati settentrionali, nelle città del centro nord. Sono fatti, provati e passati in giudicato. L’avvocato chiede «prudenza nel dare giudizi che possono in via teorica creare disagio all’economia e alla società in generale». Concetti che D’Errico aveva espresso durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario dopo che Musti aveva definito l’Emilia terra di mafia.
«Siamo tornati indietro di anni», confida un investigatore che ha seguito le ultime indagini contro la ‘ndrangheta emiliana, «pensavo che dopo l’inchiesta Aemilia la coscienza antimafia fosse matura». Aemilia è l’operazione che nel 2015 ha portato in carcere centinaia di persone, tra boss, gregari e complici insospettabili della ’ndranghete emiliana. Sembrava, in effetti, a chi ha vissuto quegli anni un cambiamento epocale. Persino la politica aveva dovuto fare i conti con i suoi fantasmi. Peraltro le indagini aveano portato allo scioglimento per mafia del primo comune della regione: Brescello, paese in provincia di Reggio Emilia celebre per la saga di Peppone e don Camillo. «La magistratura a volte fotografa le situazioni in modo esagerato e fornisce, pur in buona fede, una lettura ingigantita perchè inquadrata da un unico punto di osservazione». Salvare le apparenze La colpa è dunque non dei padrini che avvelenano l’economia della regione, ma di chi prova a contrastarli. Una narrazione che nei primi anni del Duemila colpiva anche i cronisti, pochi, che raccontavano il potere dei clan sul territorio. La reazione era la stessa: «Esagerati», «mitomani». Anche quando era emerso che trai tesserati di un partito di destra erano presenti uomini della camorra. O anche quando un ex senatore come Giovanardi si era speso per salvare un’impresa modenese dal provvedimento del prefetto, l’interdittiva antimafia usata per le aziende condizionate dalle mafie. L’imprenditore in questione è stato condannato per concorso esterno, l’ex ministro Giovanardi è imputato ma il processo probabilmente salterà: la giunta del senato poche settimane fa sposato la tesi sostenuta da Giovanardi, ha agito nel rispetto delle sue prerogative di parlamentare, perciò può godere dell’immunità.
Dunque è passato il principio che fare pressioni per salvare un’azienda complice delle cosche si può. Francamente qui l’unica esagerazione pare essere la negazione di un fenomeno radicato che nonostante le inchieste e i colpi inferti riproduce metastasi senza sosta: l’ultima indagine del 2021 è lì a ricordarci che con i vecchi capi in carcere e condannati sono attivi i ragazzi delle cosche. Le nuove leve, le seconde e le terze generazioni che fa comodo non vedere.
Buonanotte Emilia