Dalla seconda metà di giugno il processo Aemilia ha il suo secondo pentito.
Dopo Giuseppe Giglio, infatti, è Antonio Valerio ad aver scelto di collaborare con la giustizia. Famoso per le intercettazioni in cui, insieme a Gaetano Blasco, se la rideva in seguito alle scosse di terremoto che hanno colpito l’Emilia nel 2012, Valerio sta parlando con i PM riempiendo, finora, 18 verbali. Martedì 26 sarà, inoltre, sentito durante l’udienza del processo Aemilia e per la prima volta si troverà a parlare davanti ai suoi ex compari.
Considerato come una memoria storica, Valerio è però una figura molto diversa da quella di Giglio. Se quest’ultimo, infatti, può essere considerato come il bancomat della cosca e come collante tra i colletti bianchi e il clan, Valerio conosce molto bene l’ala militare ed in questi mesi sta raccontando ai PM tutte le dinamiche interne all’organizzazione criminale a cui appartiene da fine anni 80.
“Sono affiliato alla ‘ndrangheta e ho raggiunto il grado di quartino. La mia carriera criminale è partita nel 1988 e sono stato formalmente battezzato nell’autunno del 2000 ma già diversi anni prima ero a disposizione della ‘ndrangheta e mi ero reso autore di fatti criminosi anche gravi. A Reggio Emilia ho preso la “Santa” da Lamanna Francesco, che aveva il grado di padrino, nel capannone di Blasco, che a sua volta aveva acquisito il grado di sgarrista o camorrista. Dopo la Santa ho preso il trequartino alla casa di Scarazze di Nicolino Grande Aracri nel 2011 quando era stato scarcerato. Qualche mese dopo Nicolino mi ha dato il quartino. Una promozione che mi ha dato perché erano programmate azioni criminali di rilievo, anche di sangue, ai danni di alcune persone”.
Considerando che i suoi 18 verbali sono al momento quasi interamente ricoperti da omissis, possiamo focalizzare la nostra attenzione solo su determinati aspetti da lui esaminati. Valerio, detto “Pulitino”, ha fatto i nomi degli appartenenti alla cosca.
Alfonso Diletto, viene definito come referente economico patrimoniale della cosca (vedi entrambe le sentenze dell’abbreviato di Aemilia). Rocco Femia come colui che gestiva le apparecchiature e le piattaforme da gioco (vedi sentenza primo grado Black Monkey). Antonio Gualtieri come personaggio subentrato a Romolo Villirillo (vedi ordinanza di custodia cautelare di Aemilia, vedi entrambe le sentenze in abbreviato, vedi affare Fallimento Rizzi, vedi deposizioni dei Carabinieri di Fiorenzuola d’Arda).
Valerio racconta anche del coinvolgimento di Gaetano Blasco in numerosi incendi (vedi varie deposizioni di imprenditori nel corso di questi mesi). Domenico Mesiano viene ritenuto partecipe. Condannato in primo grado in abbreviato per concorso esterno, i PM avevano chiesto in appello una condanna per associazione di stampo mafioso. Richiesta non accolta, ma condanna confermata. Michele Bolognino, ritenuto affiliato, aspetta ancora una sentenza di primo grado. Ma continua a rinnegare ogni accusa.
Tra i nomi degli affiliati fatti da Valerio compare quello di Alfonso Paolini (vedi contatti con Questori, poliziotti, politici e Carabinieri). Iaquinta, difeso dall’avvocato Taormina, i cui controesami sono sempre i più lunghi (ma anche i più interessanti), ha più volte attaccato duramente il PM Mescolini, facendosi sbattere fuori dall’aula. Valerio ha anche raccontato di come molti affiliati si siano serviti della stampa per “ripulirsi” la reputazione.
E quest’ultimo aspetto ci conduce a un’ulteriore riflessione. Aemilia, oltre ad essere il più grande maxiprocesso contro la mafia al nord Italia, ha un altro primato: quello di aver fatto emergere, per la prima volta in assoluto, un nuovo modus operandi della ndrangheta: l’utilizzo strumentale della stampa e dei mezzi di informazione. Se tra i connotati identificativi della mafia vi è il silenzio, la cosca Grande Aracri è stata la prima, nella storia, a prendere in mano un microfono per portare avanti una linea difensiva senza precedenti fatta di interviste ai giornali ed interventi in tv volti non solo ad attaccare il prefetto De Miro e le sue interdittive, ma utilizzando tali argomenti per presentarsi agli occhi dell’opinione pubblica come vittima di un rigurgito razzista portato avanti dallo stesso Prefetto (che però è palermitana). Piccoli imprenditori ed onesti lavoratori, messi alla gogna solo perché calabresi. Il tutto grazie anche al supporto di Marco Gibertini, giornalista già condannato in abbreviato. Ma non solo, anche se è semplice trovare in Gibertini un capro espiatorio (vedi Gerrini per le gravi responsabilità del comune di Finale Emilia, vedi Pagliani per le gravissime colpe della politica emiliana). Sarcone e company hanno rilasciato interviste a tanti giornalisti in quel periodo, non dimentichiamolo. Ma questa è un’altra storia.
Detto questo, illuminante è la riflessione fatta dal GUP Francesca Zavaglia all’interno delle motivazioni della sentenza di primo grado per i 71 imputati che hanno optato per il rito abbreviato. La Zavaglia, infatti, pone sul piatto della bilancia lo scollamento più totale tra le numerose dichiarazioni rilasciate in quegli anni dai membri del clan, che si definivano non solo onesti, ma in grandissime difficoltà economiche a causa delle interdittive, e le auto di lusso (i cui proprietari sono proprio i membri del clan) posteggiate davanti il ristorante Antichi Sapori la sera della famosa cena del 21 marzo 2012, individuate dagli investigatori grazie a un servizio di osservazione e pedinamento. Detto questo, il punto centrale delle dichiarazioni di Valerio deve ancora uscire fuori. E si trova esattamente in tutti gli omissis dei 18 verbali delle dichiarazioni rese ai PM dal neopentito.
Tutto ciò che sta emergendo era già emerso. Ma resta comunque un fattore di forza (non indifferente) a favore dell’impianto accusatorio.