L’INCENDIO DEL 3 MARZO
Sono da poco passate le 18 quando, domenica 3 marzo, un capannone dell’area di stoccaggio di rifiuti solidi urbani non pericolosi, situata nella discarica di Herambiente di Via Caruso, viene avvolto dalla fiamme. Non completamente, però: l’incendio coinvolge infatti la zona all’interno della quali vengono depositati i materiali ingombranti derivanti dalle stazioni ecologiche e una parte del “multi-materiale”, un rifiuto non pericoloso destinato alla selezione e al recupero di materia.
“Si tratta di rifiuti urbani non pericolosi” precisa quasi immediatamente Hera e, nel frattempo, i carabinieri di Modena mettono in atto un sequestro probatorio. Duecento le tonnellate di materiale andato a fuoco. Dopo due giorni l’incendio viene finalmente spento del tutto e questo ha dato il via alle indagini che si stanno muovendo verso una direzione ben precisa: incendio doloso. Titolare dell’inchiesta la dott.ssa Katia Marino che ha aperto un fascicolo a carico di ignoti. “Si tratta di un reato difficile da accertare in queste circostanze – ha spiegato Lucia Musti – essendo andato tutto bruciato, quindi anche le possibili prove”.
L’INDAGINE DELL’ANTIMAFIA
Sta per terminare il 2014 quando la Direzione Distrettuale Antimafia decide di aprire un’indagine, coordinata dal sostituto procuratore Stefano Orsi, in relazione alla gestione dei rifiuti all’interno della discarica presente in via Caruso. Controlli sul campo, intercettazioni telefoniche-ambientali, perquisizioni, sequestri ed accurate verifiche documentali: sono questi gli strumenti messi in campo dagli inquirenti.
Il quadro che emerge è inquietante: dal 2013 al 2015 sono state gestite illecitamente più di 125.000 tonnellate di rifiuti urbani e speciali per un giro d’affari di circa 800.000 euro grazie ad un’attività organizzata per il traffico di rifiuti, false attestazioni e truffa aggravata ai danni della Regione Emilia Romagna. Cinque le persone coinvolte, tra cui tre dirigenti di Herambiente. Gli investigatori chiedono immediatamente il sequestro dell’impianto ma il GIP rigetta tale richiesta. Il quadro investigativo, come detto, si è focalizzato in particolar modo sulle modalità di gestione dei rifiuti urbani e speciali. Si legge in una nota della Forestale:
mediante artifizi e raggiri costituiti nel non aver sottoposto a recupero i rifiuti ma nell’aver loro esclusivamente cambiato codice, nonché mediante false attestazioni documentali del loro avvenuto recupero, Akron ha illecitamente smaltito in diverse discariche rifiuti usufruendo indebitamente dell’ecotassa in forma agevolata.
In poche parole: i rifiuti comodamente spacchettabili per il recupero di materiali riciclabili venivano trattati all’interno dell’impianto modenese. In presenza di un rifiuto più complesso da lavorare, questo veniva spedito nelle discariche con un “titolo” ovvero un formulario che ne giustificasse il conferimento come rifiuto trattato e ricevibile dalla discarica. Tra le discariche di destinazione c’era anche quella di Finale Emilia. Scrive ancora il settore investigativo della Forestale:
Le indagini hanno evidenziato una situazione di rodata gestione illecita, costituita dalla volontaria attribuzione di errati codici identificativi ai rifiuti al fine di renderli cartaceamente recuperabili, visto che altrimenti, per la loro natura, non avrebbero potuto essere gestiti presso l’impianto, nonché al fine di agevolarne il conferimento da parte di propri clienti. Inoltre, le complesse attività effettuate, permettevano di appurare una sistematica omessa attività di selezione/recupero a norma di legge di talune tipologie di rifiuti, ivi compresi anche quelli originati da raccolte differenziate urbane comunali, quali carta e plastica. Di particolare evidenza risultava poi il fatto che, ingenti quantitativi di rifiuti costituiti principalmente da urbani ingombranti e imballaggi misti speciali, venivano smaltite in discarica tal quali, in quanto il loro recupero non risultava sufficientemente remunerativo per la ex società imolese.
CHI PUÒ ESSERE STATO?
È questa la domanda che da ieri la città di Modena si sta ponendo: se, così come dichiarato dalla Procura, la matrice dell’incendio della discarica di via Caruso è dolosa, chi è il responsabile di tale azione? Molte, moltissime le voci che ipotizzano (o quantomeno temono) che a dare il via alle fiamme sia stata una mano mafiosa. Troppo presto per dirlo. Gli inquirenti stanno svolgendo delle delicatissime indagini che, senza alcun dubbio, richiederanno tempo e analisi ben approfondite.
Questa vicenda, tuttavia, ha riaperto in città un dibattito che, ancora oggi, si fa fatica a sviluppare del tutto ed è quello relativo alle modalità attraverso le quali le organizzazioni mafiose si manifestano all’interno del territorio. È dunque giusto, a questo punto, riflettere su alcuni punti che risultano fondamentali per comprendere le modalità dell’azione mafiosa. Partendo dal presupposto che ormai la mafia è ben radicata nelle regioni del nord, è opportuno ribadire come le organizzazioni mafiose siano da sempre in grado di mimetizzarsi prima e adattarsi poi all’ambiente in cui si insediano. Studiano il territorio, tentando di comprendere quali siano gli spiragli attraverso i quali prendere il potere o comunque portare avanti le proprie attività illecite.
Le cosiddette “ecomafie” sono, nell’immaginario collettivo, un problema riguardante il sud e in particolar modo quella che da tutti viene conosciuta come la “Terra dei fuochi”. Così non è. I reati ambientali perseverati dalle organizzazioni mafiose sono ormai diffusi in tutto lo stivale. Per quanto riguarda il fenomeno degli incendi di discariche o di impianti di smaltimento dei rifiuti, le cronache degli ultimi anni parlano chiaro: Veneto, Lombardia e Toscana sono le nuove frontiere all’interno delle quali le organizzazioni criminali stanno portando avanti tali attività. Solo nel 2017 sono stati censiti quasi 250 incendi nello smaltimento dei rifiuti. Nel linguaggio mafioso il fuoco è di fondamentale importanza: arma di ricatto e intimidazione sì, ma anche mezzo attraverso il quale cancellare tracce scomode. “Bruciare è la bonifica criminale per eccellenza” si dice, ed è vero.
Illuminante, in tal senso, è un articolo pubblicato su La Stampa da Antonio Pergolizzi il quale scrive:
C’è puzza di bruciato e di malaffare dietro agli incendi che stanno divampando come furie in centinaia di impianti di gestione di rifiuti. Puzza che sta entrando sin dentro le stanze di alcune procure, probabilmente anche in quelle della Direzione nazionale antimafia. Cosa sta succedendo? Al momento nessuno può dare risposte certe e definitive. Sul campo ci sono solo ipotesi, la più accreditata presso gli organi investigativi è che con le fiamme spariscono d’un colpo rifiuti ed eventuali prove di pratiche illegali. Chi non ha le carte in regola potrebbe essere tentato dalle fiamme. Appare infatti verosimile che dietro questi roghi ci sia una qualche forma di strategia criminale, non necessariamente unitaria, che se inizialmente faceva pensare solo a circuiti esterni alle aziende e alla voracità delle famiglie mafiose di impossessarsi d’un colpo di impianti e appalti, adesso spinge a guardare sin dentro le aziende, al loro modo di stare sul mercato, di gestire allegramente le autorizzazioni in possesso. Chi conosce questo complicato mondo è più propenso a perorare la seconda ipotesi.