Note Modenesi – 20 marzo 2017
Già dai primi anni Ottanta Felice Maniero, boss della mala veneta, fa di Modena la sua “seconda residenza”, l’avamposto emiliano per attività criminali che vanno dalle bische clandestine alla droga. A spingere i suoi tentacoli fin sotto la Ghirlandina dopo aver conquistato l’intero Nordest è, al solito, la brama di “schei”. Il denaro che abbonda in quella che all’epoca è, insieme a Milano, la città italiana con il più alto reddito pro capite. Sono almeno due le date che segnano la storia del rapporto tra il bandito veneto e Modena: il 12 maggio 1984 e il 23 gennaio 1992.
“La mafia è a Roma, non qua” afferma sicura una brescellese accorsa nel settembre 2014 a una manifestazione di sostegno nei confronti dell’allora sindaco del paese del reggiano, Marcello Coffrini, dopo che le sue sconcertanti dichiarazioni a favore del concittadino Francesco Grande Aracri (imprenditore condannato in via definitiva per associazione di stampo mafioso, descritto dal sindaco come «un uomo composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello» nell’intervista registrata dai giovanissimi ragazzi dell’associazione Cortocircuito) hanno acceso i riflettori dei media nazionali sul paese di Peppone e Don Camillo. Un anno e mezzo dopo, il 26 febbraio 2016, Brescello diventa il primo comune emiliano sciolto per mafia. Dal canto suo, l’ex sindaco – dimissionario prima dello scioglimento e mai indagato – ancora oggi difende così le sue affermazioni di allora: “Non è parlando con una persona che si diventa delinquenti. La criminalità non è un virus, una malattia che si prende incontrando qualcuno per strada”. Eppure, come riporta il decreto di scioglimento firmato dal Presidente della Repubblica “l’atteggiamento di acquiescenza degli amministratori comunali che si sono avvicendati alla guida dell’ente nei confronti della locale famiglia malavitosa (…) si è poi trasformato in una condizione di vero e proprio assoggettamento al volere di alcuni affiliati alla cosca, nei cui riguardi l’ente, anche quando avrebbe dovuto, è rimasto, negli anni, sostanzialmente inerte”.
Sempre un anno fa, nel marzo 2016, nell’aula bunker allestita a Reggio Emilia inizia il maxiprocesso legato all’inchiesta denominata Aemilia: un vero e proprio terremoto in una terra forse ancora prigioniera del mito di se stessa che, nell’indagine, vede definitivamente certificato il radicamento mafioso in quella che fu l’Emilia rossa. Il processo è l’approdo di un’inchiesta durata cinque anni. Una lunga indagine che trova un primo passaggio chiave nel giugno 2015, quando il sostituto procuratore della Direzione distrettuale Antimafia di Bologna Marco Mescolini invia 224 avvisi di fine indagine ad altrettante persone accusate di far parte o di essere fiancheggiatrici della ‘ndrangheta radicata fra Reggio Emilia, Bologna, Modena, Parma e la Romagna. Esclusi gli indagati che hanno optano per il rito abbreviato e i pochissimi proscioglimenti, al momento sono 147 gli imputati nel maxiprocesso – il primo di ‘ndrangheta in terra emiliana – ancora in corso (prossima udienza domani, 21 marzo, alle 9.30).
A qualcuno piace “sparare in bocca”. Ma se Reggio è considerata la capitale della presenza mafiosa in Emilia, anche Modena può vantare – se così si può dire – una lunga storia di prossimità con la criminalità organizzata iniziata forse con l’arrivo a Sassuolo in soggiorno obbligato di Tano Badalamenti (il Tano seduto di Peppino Impastato) 45 anni fa, nel 1972, fino alla recentissima condanna a 26 anni con sentenza di primo grado del boss Nicola Femia, quello che dopo aver minacciato di “sparargli in bocca” costringe ancora oggi il cronista Giovanni Tizian a vivere sotto scorta, passando per la (mai sufficientemente approfondita) attrazione fatale per la nostra città da parte del boss della mala del Brenta, Felice Maniero – “Felicetto”, “Felix”, “Faccia d’angelo” – forse il bandito più mitizzato della storia criminale del nostro Novecento insieme a Renato Vallanzasca, il bel René.
Felice Maniero, qui giovanissimo, è nato a Campolongo Maggiore (VE) il 2 settembre 1954
I tentacoli della piovra. Tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, Maniero e i suoi (circa 300 affiliati nel momento di maggior crescita della banda) controllano tutte le principali attività illecite del Nordest: traffico di armi, contrabbando, rapine, sequestri, bische, droga… di tutto. Un impero del crimine messo in piedi con l’avvallo della mafia che anzi – come scrive la Questura di Venezia in una relazione del 2003 – è proprio quella che consente “il vero e proprio salto di qualità” ai feroci giovinastri della mala del Brenta “facendogli acquisire tutte le caratteristiche tipiche delle attività mafiose”, grazie agli insegnamenti impartiti da “docenti” esperti come il boss palermitano Salvatore “Totuccio” Contorno, nei primi anni Ottanta in soggiorno obbligato nel Padovano. Di organizzazioni criminali come Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, la mala del Brenta inizia così a riprodurre una delle caratteristiche più significative, ovvero, la capacità di determinare in un territorio “una situazione di sudditanza psicologica così rilevante da precludere un ordinario svolgersi delle comuni attività produttive, commerciali, imprenditoriali, economiche, politiche”.
A Modena, Felicetto è di casa. Il territorio controllato da Maniero e soci ha il proprio centro lungo il corso del fiume Brenta sul quale si affaccia la natia Campolongo Maggiore, si estende quindi al resto del Veneto e Friuli fino a toccare la ex Jugoslavia, e poi scende verso sud, fino a Modena, avamposto della mala veneta in Emilia. Qui Maniero e i suoi gestiscono il giro delle bische clandestine e il traffico di droga in seguito all’accordo con il boss della camorra Giuseppe “Peppinotto” Caterino, dalla metà degli anni Ottanta al confino a Modena, dove, in poco tempo, diventa il referente di zona per il clan del Casalesi. Qui Maniero e i suoi sono degli habitué. Di più: secondo Paolo Baron, cronista del gruppo L’Espresso, la città della Ghirlandina per Felicetto è addirittura la “seconda residenza”, tanto che il bandito, perfino dopo il “pentimento” a metà degli anni Novanta, “ha continuato fino anche dopo il Duemila a frequentare amici e ristoranti di Modena”.
A parte le tantissime occasioni di cui non sapremo mai, sono almeno un paio le date che segnano la storia del rapporto tra Maniero e Modena: il 12 maggio 1984 e il 23 gennaio 1992.
Il blitz all’osteria di via Gallucci. E’ un tranquillo sabato sera quel 12 maggio del 1984 quando il trentenne Maniero arriva a Modena accompagnato dalla sua ragazza dell’epoca, Barbara Scarpa “l’unica donna – scrive Maurizio Dianese sul Gazzettino di Venezia – di cui il boss del Brenta si sia realmente innamorato perdutamente”. Lei è una ragazza di buona famiglia che nulla ha a che fare con la malavita se si esclude il particolare, non da poco, di essere a sua volta follemente innamorata di Faccia d’angelo, conosciuto in una famoso locale di Jesolo, il Muretto. La meta della coppia è l’Osteria Toscana di Via Gallucci 21, locale che oggi non esiste più avendo cambiato nome e gestione. Ad attenderli ci sono il padovano Gilberto Sorgato detto Caruso, suo sodale e complice fin dagli inizi della attività criminale, accompagnato dalla entraîneuse inglese Sarah Beatrice Andrews, da Ivana Alpini, contitolare di un night club del centro e da un altro complice, Stefano “Sauna” Carraro, veneziano di Dolo ma domiciliato a Modena che per la mala gestisce il giro delle bische (verrà assassinato due anni più tardi, si dice per ordine dello stesso Maniero, circostanza negata dall’ex cassiere della banda, Mario Artuso).
Criminalpol e Mobile modenese vengono a conoscenza della presenza a Modena del boss latitante (un primo arresto è avvenuto già quattro anni prima, nel 1980) e poco dopo le 21.30 in un rapido blitz vengono arrestati tutti e sei i commensali: i tre malavitosi e le loro compagne. All’epoca Maniero non è ancora assurto agli onori della cronaca nazionale come capo indiscusso della mala del Brenta, e il suo arresto viene ignorato dalla grande stampa che, nella maggior parte dei casi, non presta alcuna attenzione alla notizia o, al più, gli dedica un trafiletto. Come Repubblica del 15 maggio: “Il latitante più temuto del Veneto, Felice Maniero, 29 anni, ricercato da tre, accusato di rapine e sequestri, detto “faccia d’ angelo”, è stato catturato sabato sera a Modena, mentre cenava con due luogotenenti a un tavolo della Trattoria Toscana. Con loro c’erano anche due donne, ora accusate di favoreggiamento. Gli agenti della Criminalpol, che hanno agito in collaborazione con la Mobile modenese, hanno circondato il locale senza lasciare ai tre alcuna possibilità di scampo”.
Diversa, ovviamente, l’eco che l’episodio ottiene sulla stampa locale. “Boss presi al ristorante” titola il Carlino, pubblicando le foto di tutti gli arrestati con l’esclusione di Barbara Scarpa, nemmeno citata nel pezzo che si limita a segnalare la presenza di una “terza ragazza interrogata a lungo e quindi rilasciata”. Come per Carraro, anche alla Scarpa (rimasta legata a Faccia d’angelo fino all’ultimo) il destino riserva una fine tragica di lì a poco. Impegnata come interprete al summit dei G7 che nel giugno 1987 si tiene a Venezia, muore in un incidente stradale appena ventiquattrenne, ufficialmente a causa di un malore. Maniero invece verrà rinchiuso nel carcere di Fossombrone, in provincia di Pesaro, dal quale evaderà in maniera rocambolesca tre anni dopo insieme al brigatista rosso Giuseppe Di Cecco.
Cherchez la femme? Piuttosto, follow the money! Ma che ci fanno Maniero e Sorgato a Modena? Il giorno dopo l’articolo sull’arresto (pubblicato martedì 15 maggio 1984), il Carlino riprende la vicenda riducendo tutto a una “questione di donne”: sarebbe “l’amore” il motore della presenza sotto la Ghirlandina dei due malavitosi. Secondo Italo Frigeri, autore del pezzo, Sorgato “si era follemente innamorato di Sarah Beatrice Andrews” mentre il suo amico Felice Maniero “si era legato da affettuosa amicizia con la contitolare di un un locale nottorno” (la Alpini). Un po’ poco per giustificare le continue calate in città dei due che, da un paio d’anni, qui fanno tappa prendendo alloggio presso “amici” o in alberghi di lusso, trascorrendo spesso “le serate con ballerine e entraineuses di qualche locale notturno facendo scorrere champagne a fiumi”.
E infatti, ammette Frigeri, la Squadra mobile di Modena “sta cercando gli agganci che i due avevano con la nostra città”. Che ci facevano qui? Avesse girato qualche pagina di quella stessa edizione del Carlino, avrebbe trovato egli stesso una risposta nel blitz che carabinieri e polizia compiono al terzo piano di un condominio in pieno centro a Sassuolo dove, oltre al proprietario dell’appartamento adibito a bisca clandestina, “sono stati trovati seduti tranquillamente attorno al tappeto verde alcuni commercianti e artigiani di Sassuolo, Modena e Reggio Emilia”. Ma perché proprio Modena affascina così tanto Felicetto? La risposta potrebbe non essere così complicata: negli anni Ottanta, la città ha il reddito pro capite più alto d’Italia insieme a Milano ma, sicuramente, una presenza criminale – mafiosa o meno – non certo del livello di quella milanese. In pratica, un mercato ricchissimo della cui “gestione” si incaricano i veneti.
Il “ratto” della Galleria Estense. La seconda “puntata” di enorme rilievo per questa liaison dangereux tra la mala veneta e Modena risale invece alle 18.40 di giovedì 23 gennaio 1992 quando un commando composto da quattro banditi, armi in pugno e la faccia coperta da passamontagna, irrompe nella Galleria Estense all’interno del Palazzo dei Musei di piazzale Sant’Agostino, immobilizza i custodi, disattiva il sistema antifurto, e in pochi minuti trafuga cinque capolavori d’arte – opere di Correggio, Velàzquez, El Greco e due Guardi per un valore stimato di 75 miliardi di lire – per poi allontanarsi a gran velocità su un’auto di grossa cilindrata. Del furto, rispetto al quale si ipotizza una richiesta di riscatto che non arriverà mai, parlano i media di tutta Italia. In un fondo sul Carlino, il critico d’arte Vittorio Sgarbi ipotizza il coinvolgimento della mafia per “l’efficienza e la determinazione” con cui è stato compiuto il furto che richiama “la professionalità dei modelli mafiosi”. Senza saperlo, Sgarbi ci ha visto giusto. A ordinare l’operazione è stato Felice Maniero di cui in seguito, dirà uno dei suoi uomini più fidati, Sergio Baron: “Quello di progettare furti clamorosi di opere d’arte ovvero di oggetti di devozione religiosa era uno dei pallini fissi di Maniero, il quale aveva potuto constatare i vantaggi di siffatte iniziative”.
Ad esempio quando nell’ottobre del ’91 la banda trafuga dalla Basilica di Sant’Antonio da Padova il mento del santo, una reliquia per la cui restituzione ottiene in cambio la liberazione di un cugino di Felicetto, Giulio Rampin, e la temporanea sospensiva dall’obbligo di soggiorno a Campolongo al quale all’epoca il boss è costretto, un provvedimento velocemente ristabilito una volta avuta indietro la reliquia. «Il fine perseguito con il furto di opere d’arte – spiega Maniero durante un interrogatorio nel 1995 – non era quello di ottenere denaro. Si faceva affidamento sullo sconcerto che questi furti clamorosi provocavano sull’opinione pubblica. Questo consentiva di instaurare una trattativa con le forze istituzionali in modo da ottenere sconti di pena, vantaggi carcerari o qualunque altro beneficio possibile a fronte del recupero delle opere d’arte». A ciò si aggiunga, se si vuol dar credito a quanto afferma il suo ex legale Enrico Vandelli (a sua volta condannato per associazione a delinquere di stampo mafioso) nella puntata dedicata alla mala del Brenta della trasmissione di Carlo Lucarelli su Rai Tre, che Maniero era in possesso di “una profonda cultura, per esempio della pittura italiana. Ma non solo quella contemporanea o moderna che dir si voglia, ma anche di quella antica”.
Il collaboratore di giustizia. Rispetto al “ratto di Modena”, scrivono Paolo Zanetov e Paolo Sidoni nel loro saggio “Pentiti”, la strategia non dà apparentemente i risultati sperati – la revoca del provvedimento restrittivo – ma comunque gli garantisce “un’apertura dei rapporti con lo Stato tornatagli utile all’atto del pentimento”. Arrestato nell’agosto del 1993 a Capri, Maniero permette agli inquirenti di ritrovare i due pezzi minori (uno dei due Guardi e l’opera di El Greco) per poi riconsegnare nel febbraio del 1995, data ufficiale del suo pentimento che gli garantirà lo status di “collaboratore di giustizia”, le tre tele ancora mancanti all’appello: una “Veduta di San Giorgio” di Guardi, il “Francesco I” di Velàzquez e la “Madonna con Bambino” di Correggio. I dipinti, perfettamente conservati, erano nascosti in uno dei covi della mala del Brenta, un casolare abbandonato in provincia di Padova.
Gli “ultimi fuochi” di Faccia d’angelo non vogliono spegnersi. A distanza di venticinque anni esatti dall’ultima “impresa” modenese, l’ex boss non smette di far parlare di sé. Dopo l’inchiesta di Report del 2015 che ha rivelato la nuova attività di Maniero che, con patrocinio del Ministero delle politiche agricole, gestisce sotto falso nome dalla sua Campolongo il business delle casette delle acque che vediamo in moltissime città, l’ultima occasione che l’ha visto salire agli onori della cronaca è stato giusto due mesi fa quando è stato rintracciato e messo sotto sequestro in Toscana un patrimonio pari a 17 milioni di euro, parte dei proventi di un’attività criminale, la sua, lunga almeno vent’anni.
A lui sono stati dedicati diversi libri, a partire dall’autobiografia (ormai introvabile se non a prezzi assurdi su Ebay) “Una storia criminale“, definita fiabesca dalla giornalista e scrittrice esperta di criminalità organizzata in Veneto Monica Zornetta. A lui ha prestato il volto Elio Germano nella miniserie di Sky del 2012 “Faccia d’angelo”, sconfessata da Maniero che l’ha bollata come “una misera fiction solo per fare cassetta che ha stravolto la verità e il senso del libro (l’autobiografia. Ndr) al quale si è ispirata”. Magliette che ne ritraggono il volto, accompagnate alla scritta in dialetto veneto “Fasso rapine”, si trovano in vendita online per 29 euro nonostante la denuncia di un parente di una delle sue vittime ne abbia fatto modificare la grafica iniziale, troppo esplicita nei riferimenti a Felicetto.
Insomma, pare che bisognerà aspettare ancora prima che cali definitivamente il sipario sulla lunga epopea criminale dell’ex boss veneziano, oggi sessantaduenne. Un delinquente che sotto la “faccia d’angelo” nascondeva una ferocia e una crudeltà bestiali. Un bandito pluriomicida ancora oggi odiato da chi è stato vittima dei suoi innumerevoli crimini, ma anche dai suoi ex sodali, come Silvano Maritan, altro esponente di spicco della mala del Brenta. Paradossalmente ma non troppo, a “rimpiangerne” l’uscita di scena in un’intervista di qualche anno fa è Michele Festa, il poliziotto della Criminalpol di Venezia (oggi pensionato) che riuscì ad arrestarlo per ben due volte, anche se la sua “nostalgia” per l’epoca in cui Maniero era a capo della mala veneta si deve a ragioni – per così dire – tecniche: “Il lavoro per noi poliziotti era più chiaro: quando succedeva qualcosa di grosso si sapeva che c’era lo zampino della mala del Brenta e che bisognava dare la caccia a quel manipolo di personaggi. Oggi, invece, ci sono mille bande senza scrupoli composte da criminali dell’est, nigeriani… Dal punto di vista investigativo è più complicato”.