A voi l’ottava puntata di #microfonoinmano, la nuova rubrica di Mafie sotto casa: l’intervista a Donato Ungaro.

Donato, la tua storia comincia a Brescello, dove lavoravi come vigile urbano e giornalista della Gazzetta di Reggio. Qual è la realtà in cui ti sei imbattuto e che hai voluto raccontare?

Brescello è il paese più bello del mondo. Ma purtroppo la visione bucolica di paese di Peppone e don Camillo ha lasciato il posto allo scioglimento del consiglio comunale per accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata. Questo lo sappiamo dagli atti oggi a disposizione di tutti, ma tra la fine del Novecento e i primi anni del Terzo Millennio il clima era sotto gli occhi di chi voleva vedere. C’era la coscienza generale che qualcuno certe cose le poteva fare; alcuni calabresi poteva parcheggiare impunemente in piazza, alcuni pastori siciliani poteva pascolare nei campi altrui senza che la legge intervenisse per risolvere il problema (sono volate anche delle bastonate, con gente che ha dovuto andare all’ospedale), la sabbia si scavava abusivamente nel Po e nelle cave, si bruciavano auto e si rovinavano con l’acido, si scriveva sui capannoni: “Il fuoco brucia”, “La neve non si tocca”. Certi artigiani arrivavano da Cutro, da Isola Capo Rizzuto e dopo pochi mesi buttavano la Fiat Uno scassata con la quale erano arrivati e acquistavano Bmw, Audi, Mercedes… Tutti vedevano tutto, ma proprio come nella fiaba di Andersen la maggior parte delle persone non avevano interesse ad alzare la voce, pena esser considerati stolti o indegni; e nessuno vestiva i panni del bambino denunciando la nudità dell’imperatore. Perché altrimenti avrebbe dovuto mettere in piazza anche i propri “peccati”. Alla fine il sistema è diventato talmente pervasivo che la legalità e la pretesa del rispetto delle regole erano avvertite come un fastidio, un imbarazzo.

I tuoi articoli toccano quindi temi scottanti e inediti per una piccola comunità come quella di Brescello e quello che scrivi non è particolarmente gradito in paese. A partire dal sindaco Coffrini…

Nel 2001 avevo pubblicato un piccolo libro fotografico: “La Milano mia e di Giovannino». Dalla Gazzetta di Reggio mi arrivò una proposta di collaborazione e parlai con Antonio Roccuzzo, uno dei “carusi” di Pippo Fava. L’intesa fu immediata e dopo pochi mesi iniziammo a scrivere di cocaina sequestrata, di minacce ad artigiani cutresi, di scritte sui portoni. Poi il tema del Turbogas, delle scorie di fonderia e delle escavazioni abusive. Argomenti evidentemente ritenuti problematici. Ricevetti un “invito” a smettere di scrivere per la Gazzetta di Reggio, ma rivendicai i miei diritti sanciti dall’articolo 21 della Costituzione. Ermes Coffrini non accettò il mio rifiuto e mi fece licenziare. Era il 29 novembre 2002. Il licenziamento è stato dichiarato illegittimo nel 2010 dal Tribunale di Reggio Emilia, dalla Corte d’Appello di Bologna nel 2013 e dalla Corte di Cassazione nel 2015. I temi che ho toccato, e i “risultati” che ho ottenuto devono aver dato fastidio parecchio e non solo a Coffrini; perché sono stato minacciato, mi han tagliato 2 volte gli pneumatici dell’auto, hanno presentato denunce e richieste danni milionarie per articoli che mi facevano guadagnare 4 euro. Non parlatemi di libertà di stampa…

Da poco i giudici hanno confermato, anche in appello, che si è trattato di ingiusto licenziamento. La tua battaglia può dirsi conclusa?

La sentenza di cui parliamo, del 22 gennaio scorso, riguarda solo un ricalcolo degli stipendi arretrati. Ma anche quello deve aver dato parecchio fastidio, perché un personaggio che abitava a Brescello mi ha attaccato su Facebook dicendo che avevano fatto bene a licenziarmi perché ero “…una carogna…” che “…rompeva i coglioni a tutti…” e che lui – invece che i 149mila euro stabiliti dalla Corte d’Appello di Bologna – mi avrebbe dato “…149 kg di merda…”. Poi, cercando in rete, si scopre che in passato la stessa persona è stata arrestata in un’operazione che ha colpito un traffico di droga gestito dalla ‘ndrangheta e condannata per rissa, in concorso con il figlio. E allora certi conti tornano. La battaglia non potrà mai dirsi conclusa.

Quando hai iniziato a parlare di mafia in Emilia erano i primi anni Duemila e a denunciare le infiltrazioni criminali al Nord erano poche voci isolate e spesso sottovalutate. Ti sei sentito isolato dai tuoi concittadini o dai colleghi?

Il 16 gennaio 2018 nell’aula di Aemilia ha parlato un pentito di ‘ndrangheta, Vincenzo Marino. Ha detto che nel 2003 Antonio Muto di Gualtieri (il paese al confine con Boretto, dove abitavo) l’aveva incaricato di “sistemare” un giornalista. È passato più di un anno, da quell’episodio; ma che mi risulti nessuna forza di polizia o Procura ha indagato. L’Ordine dei Giornalisti di Bologna e il sindacato hanno fatto un comunicato stampa per chiedere chi era il giornalista. Nient’altro. Sicuramente quel giornalista non ero io, ma possibile che a nessuno interessi per davvero sapere chi era quel giornalista? E a nessuno interessa sapere per quale inchiesta ha rischiato la vita? Ma soprattutto, a nessuno interessa sapere perché non si è andati in fondo, con quella sciagurata intenzione? Forse le verità sono troppo scomode da scoprire e da raccontare. Meglio dimenticarsi tutto e ringraziare il cielo che non sia successo; ma così si rischia di rifare gli stessi errori. La maggior parte dei miei concittadini, i brescellesi, mi indicano come il colpevole di una situazione che vedrà il Comune di Brescello sborsare un sacco di soldi; molti colleghi – sia vigili che giornalisti – sono semplicemente spariti… L’indifferenza è il peggior nascondiglio dei mezz’uomini, degli ominicchi e dei quaquaraquà. E non dico altro.

La sentenza di primo grado del processo Aemilia, le udienze, le ricostruzioni dei collaboratori di giustizia, il commissariamento  del Comune di Brescello. Negare ora la presenza della criminalità organizzata è diventato difficile, se non impossibile. Credi che l’atteggiamento delle istituzioni e della società civile sia cambiato?

Cambiato? Ma in che senso? L’unico cambiamento che ho avvertito è quello di polizia e carabinieri, che si sono sentiti “messi in mezzo” con esponenti delle due forze dell’ordine che hanno dovuto difendersi da accuse e imputazioni. Ma anche lì, che fatica ammettere certe situazioni imbarazzanti. La politica, invece, ha messo in atto dei protocolli, dei progetti, delle “speranze”. Ma poi arriviamo al paradosso di componenti di entità amministrative sciolte per non essersi opposte alla criminalità organizzata – e che hanno firmato i ricorsi contro il Decreto firmato dal Capo dello Stato – che oggi si sono ripresi i posti da cui sono stati cacciati. Loro, amministratori “cacciati” da Mattarella, sono stati reintegrati da una nuova amministrazione la quale così dimostra concretamente che si tratta di brave persone; che chi ha indagato e deciso di sciogliere l’ente, ha probabilmente sbagliato. Io ho ricevuto un ordine di reintegro scaturito da una delibera di giunta palesemente illegittima e da 6 anni chiedo che vengano presi provvedimenti. Ma neanche i Commissari che hanno sostituito l’amministrazione hanno voluto ripristinare la legalità, per quanto mi riguarda. E questo è stato un cattivo esempio; quasi un avvertimento.

Ti hanno dedicato uno spettacolo teatrale, Va’ pensiero, e ti hanno insignito del Premio Ambrosoli, che riconosce “esempi invisibili di professionisti che si siano contraddistinti per la difesa dello stato di diritto tramite la pratica dell’integrità, della responsabilità e della professionalità”. Donato, per il tuo modo di essere si può dire che tu sia diventato eroe “tuo malgrado”. Lo rifaresti?

È vero, nel 2018 mi hanno attribuito il premio Giorgio Ambrosoli e la menzione speciale del premio Pio La Torre, ma il primo riconoscimento è arrivato nel 2015 grazie a Gaetano Alessi e Massimo Manzoli, che, con il Gruppo dello Zuccherificio, mi hanno voluto consegnare il premio Grido della Farfalla. E proprio da quell’evento è nata l’amicizia con Marco Martinelli e il Teatro delle Albe, che ha realizzato due spettacoli: Va’ Pensiero e Saluti da Brescello. Tutte le volte che posso partecipo alle rappresentazioni e alla fine Martinelli mi chiama sul palco; e io sono sempre stupito dagli applausi, perché – come dico ogni volta – non ho fatto niente di speciale. Non sono un eroe: ho fatto solo il mio dovere. Se lo rifarei? Sono stato arruolato nei carabinieri il 6 settembre 1982, tre giorni dopo l’odioso assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Manuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo. L’aria che si respirava nell’Arma in quei giorni era indicibile; noi giovani allievi carabinieri ausiliari l’abbiamo respirata a pieni polmoni. E abbiamo compreso appieno il ragionamento del generale Dalla Chiesa, il quale diceva che un carabiniere gli alamari se li cuce sulla pelle, per tutta la vita. Io spero di avere la forza di vivere da carabiniere fino alla fine dei miei giorni; e di non sentirmi mai chiamare ex carabiniere.

 

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E non perderti l’appuntamento del prossimo mese con #microfonoinmano, le interviste di Mafie sotto casa 🙂