di Margherita Grassi, pubblicato su “Reggionline” il 09.04.2019

Sono state rese note le motivazioni della sentenza della Cassazione che lo scorso 24 ottobre aveva messo la parola fine all’iter giudiziario abbreviato del processo Aemilia.

Ancora una volta, e definitivamente, viene sancita l’esistenza della cosiddetta “locale emiliana”; ancora una volta viene messo nero su bianco da una corte, in questo caso gli Ermellini, l’azione sul territorio emiliano di un’associazione di stampo mafioso dal 2004 all’ottobre 2015. Un’associazione che non si è fermata neppure dopo gli arresti del gennaio di 4 anni fa.

Nelle 250 pagine delle motivazioni della sentenza emessa il 24 ottobre 2018 con la quale la Cassazione aveva confermato le condanne per 40 dei 46 imputati che avevano fatto ricorso contro il pronunciamento d’Appello del settembre 2017, si ripercorrono le dinamiche che la cosca di ‘ndrangheta autonoma di Reggio Emilia, Modena e Parma aveva negli anni messo in atto: la costituzione di un consorzio di imprese attive nel settore dell’edilizia “proteso – si legge – a infiltrarsi in maniera capillare nel tessuto economico florido” e la progressiva sottrazione delle iniziative imprenditoriali ai “profili ostativi consequenziali alle misure delle interdittive antimafia prefettizie”, intessendo, per fare questo, rapporti con la società civile e col mondo politico.

Le risoluzioni e le scelte operative – usura, estorsioni, minacce – venivano decise qua, dice ancora la Cassazione (il presidente della corte è Maurizio Fumo, il relatore Rossella Catena). Il boss Nicolino Grande Aracri “doveva essere tenuto informato esclusivamente delle questioni di rilevanza strategica per la sopravvivenza del gruppo” e a lui doveva essere destinata una parte degli introiti del sodalizio, il cosiddetto “fiore”.

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