Pubblicato su reggiosera.it il 28 giugno 2018.

REGGIO EMILIA – Dichiarazioni contrastanti dei pentiti sul suo conto, prove che dimostrano il suo ruolo marginale nell’attivita’ di falsa fatturazione, intercettazioni che si prestano a differenti interpretazioni e documenti che attestano come non fosse un “caporale” ma pagasse regolarmente i suoi dipendenti. Sono gli elementi che l’avvocato Carmen Pisanello -nell’udienza di questa mattina a Reggio Emilia del processo Aemilia contro la ‘ndrangheta – mescola nell’arringa pronunciata per la difesa di Michele Bolognino. Uno che, dice il legale, “non era nessuno e si era fatto solo un sacco di carcere”, oppure (in un altro passaggio dell’intervento) “un cane sciolto che non ha padroni o inservienti: e’ solo lui”.

Insomma, un’immagine dell’imputato molto piu’ “diluita” del ritratto descritto dai pubblici ministeri che per Bolognino – oggi all’Aquila in regime di carcere duro – hanno chiesto una condanna a 30 anni di reclusione in qualita’ di “capozona” per il parmense della cellula emiliana della cosca di Cutro. Dentro e fuori dal carcere dagli anni ’90 (con condanne per associazione mafiosa, droga, armi e ricettazione), Bolognino si e’ creato dal nulla, diventando da semplice operaio un imprenditore edile e piu’ avanti titolare di fatto di bar e ristoranti, tra reggiano e parmense in cui sarebbero confluiti i soldi sporchi della ‘ndrangheta.

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