Di Sofia Nardacchione, pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il 25.09.2019

Quando Nicola ‘Rocco’ Femia aveva iniziato a collaborare con la giustizia, tra le cosche di ‘ndrangheta in molti erano preoccupati. La decisione del boss era arrivata a inizio 2017, subito dopo la condanna definitiva a 23 anni per narcotraffico internazionale in Calabria e poco prima della condanna in primo grado a 26 anni per associazione mafiosa a Bologna: le sue dichiarazioni avrebbero potuto investire la ‘ndrangheta calabrese come quella emiliana. Ma proprio nel processo Black Monkey, che si sta celebrando nella Corte d’appello del capoluogo emiliano, in tanti non credono nella genuinità della collaborazione. A partire dal procuratore generale Nicola Proto.

Nell’ultima udienza del processo che vuole fare chiarezza sulla cosca legata a Nicola ‘Rocco’ Femia e sul suo business principale, il gioco d’azzardo legale e illegale, il pg ha infatti parlato di una “collaborazione che non possiamo ritenere tale”. Secondo Proto quelle di Femia sono “semplici dichiarazioni”. Anche perché quanto dichiarato dal boss ai magistrati della Dda di Bologna, non aggiunge niente a un “quadro probatorio granitico”.

Insomma, Femia, che ai magistrati di Reggio Calabria ha detto di non essere mai “stato affiliato alla ‘ndrangheta”, ma di essere “uomo ‘riservato’ di Vincenzo Mazzaferro”, capo della famiglia mafiosa di Marina di Gioiosa Jonica ucciso nel 1993, nel processo bolognese non sta aggiungendo niente di nuovo. Anzi, lo scopo principale del “pentito”, sembra agli inquirenti essere quello di destrutturare quella che in primo grado è stata riconosciuta come un’associazione mafiosa. Un aspetto su cui si concentra anche il procuratore nella sua requisitoria, mettendo l’accento sul fatto che Femia stia cercando di non aggravare la posizione dei figli, anch’essi condannati in primo grado per 416 bis a 15 e 10 anni di carcere, e quella dell’ex genero Giannalberto Campagna, condannato a 12 anni e presente nell’aula del Tribunale ad ascoltare la requisitoria.
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