A voi la quinta puntata di #microfonoinmano, la nuova rubrica di Mafie sotto casa: l’intervista a Attilio Bolzoni.

Attilio Bolzoni inizia a scrivere per “L’Ora” alla fine degli anni Settanta e da allora non ha più smesso di fare il giornalista. Attualmente membro della redazione de “La Repubblica”, ne cura il blog “Mafie”, che raccoglie notizie e voci diverse con l’obiettivo di fornire una visione complessa e approfondita del fenomeno mafioso.

Abbiamo parlato dell’evoluzione della mafia, di com’è cambiata o anche tornata com’era prima, spostiamoci quindi sull’antimafia, secondo te è riuscita a seguire questa evoluzione? E’ al passo con i tempi o bisognerebbe cambiare qualcosa, sia dal punto di vista civile sia dal punto di vista più repressivo?

Assolutamente no, non è al passo. Intanto devi distinguere: c’è una mafia che si è infiltrata nell’antimafia, ci sono stati degli arresti di imprenditori mafiosi che si iscrivono alle associazioni, ma a quello ci pensa la magistratura, sono comunque stati tentativi di infiltrazioni molto maldestri. Poi ci sono i sistemi criminali come quello di Montante, che si inventano l’antimafia al punto di diventare il simbolo dell’antimafia in Italia. Infine c’è l’antimafia sociale. Intanto c’era l’antimafia anche quando non si chiamava “antimafia”: quando andavano ad occupare le terre, era antimafia. L’antimafia moderna nasce dopo l’uccisione del generale Dalla Chiesa, per poi esplodere nella stagione delle stragi. Allora l’antimafia ha avuto una sua fase progressiva per una decina di anni, poi si è imbolsita, ha perso la sua carica progressiva. Queste grandi associazioni stanno sempre in posa perenne, sono ostili al dialogo e soprattutto incapaci di riconoscere il proprio nemico. In questi anni sono state travolte da una retorica e da un conformismo devastante, non sono riuscite a stare al passo, anche perché spesso sono state super finanziate dal governo, dal MIUR, dal Ministero dell’Interno e sono diventate molto consociative e hanno scodinzolato facendo protocolli di legalità con gli amici dei delinquenti come Montante. Quindi è stata un’antimafia che non ha capito, ha cercato di essere anche prepotente dicendo “siamo noi l’antimafia”, ma è stata ignorante nel senso che ignora e quindi ha perso molta della sua credibilità. Ma quello che sostengono i nemici storici dell’antimafia, ad esempio  contro Libera, su presunti racket delle cooperative dei beni confiscati, non è assolutamente vero, anche perché non ha cooperative che gestiscono direttamente i beni confiscati, al massimo accompagna credo una decina di casi in tutta Italia nel processo; oppure chi dice che rubano i soldi, non è vero, non rubano niente. Semplicemente sono inadeguate, è diverso, hanno poco sapere.

Quindi, per tornare alla domanda, su cosa possiamo fare, quello che manca secondo te è l’approfondimento?

Non si può fare l’antimafia con la predicazione; don Ciotti, che è una persona stimabilissima, è uno che non sa niente di queste cose e così ha fatto protocolli di legalità con gli amici di Montante mentre cacciava dell’associazione in maniera anche un po’ maldestra il figlio di Pio La Torre. Ripeto, tutte le accuse che ricevono sul fatto che facciano lucro sono false, semplicemente si sono rivelati inadeguati.

Quindi secondo te non c’è nient’altro? La domanda non era riferita a Libera ma in generale al problema di come fare antimafia

Libera rimane l’associazione più rispettabile, il popolo di Libera è un bel popolo, solo che come dice Forgione nel suo libro anche Libera ha perso la sua verginità. Parlo di Libera perché è la più grande, ma sul territorio ce ne sono tante altre, alcune che hanno una sensibilità maggiore, soprattutto le ultime nate, ad esempio Cosa Vostra, in Veneto. Sono bravi anche loro ma il problema è che è mancata in questi una cultura del sapere: ancora si parla di Riina, di Provenzano, ci si muove a cane di Pavlov, a reazione, e questo non funziona. Il problema è questo: tutti i soldi che si sono spesi in questi 25 anni – e sono fiumi  di denaro – per l’educazione alla legalità, siamo sicuri che abbiano ottenuto i risultati che noi desideravamo? Io dico di no; significa che c’è qualcosa da cambiare, semplicemente questo. L’antimafia in posa perenne, grossolana, retorica, non va più bene. Ti faccio un esempio: a Canicattì si celebrava dopo trent’anni circa la morte di due magistrati, Livatino e Saetta. Da diversi anni in quella città si organizzano due manifestazioni parallele, si fanno i dispetti tra di loro, quest’anno c’era il Comune che organizzava una cosa e diverse associazioni che ne organizzavano un’altra, due manifestazioni diverse che durano una settimana. Invitano il procuratore nazionale Cafiero De Raho, mesi fa, e il procuratore con slancio accetta subito di andare. Trova trentasei persone, compresi gli agenti della scorta, il sindaco e il presidente del Consiglio Comunale; non c’era nessun magistrato in servizio, né di Caltanissetta né di Agrigento o di Palermo, non c’erano i familiari né di Livatino né di Saetta, si arrabbia giustamente e gli esce un’espressione poco felice dalla bocca: “Quando tornerò a Roma dirò al mio ufficio di attenzionare Canicattì”. Ci è rimasto male giustamente, ma bisogna chiedersi perché nessun magistrato né parente sia andato là: perché la gente è stanca di queste convegni; i magistrati di quella zona, che lavorano venti ore al giorno per inchieste complicate e delicate, se hanno mezza giornata stanno a casa con la famiglia come facciamo tutti noi, ai familiari non importava andare a vedere la solita parata stantia che si fa dopo trent’anni, per di più in due manifestazioni parallele, perché gli altri litigano fra di loro. La morale è che questa formula di celebrazione non va più bene, le persone non vi si riconoscono più, anche perché in quella zona del centro della Sicilia lo Stato non ha dato buona prova di sé. Allora dobbiamo trovare nuove forme e fare una distinzione importante che tutti dimenticano: una cosa è fare memoria, una cosa è celebrare, sono due cose completamente diverse

Un altro esempio che a me colpisce molto è accaduto in Calabria, ma vale per tutta Italia. La legge sullo scioglimento dei Comuni è del ‘91, ad oggi ne sono stati sciolti più di 200, anche se nell’84 a Limbadi la famiglia Mancuso, potentissima, aveva fatto eleggere sindaco Ciccio Mancuso, che era latitante, quindi il Presidente Pertini con un decreto di ordine pubblico e sicurezza, perché la legge non c’era, aveva sciolto il comune. Tornando al ‘91, è l’anno in cui in Italia ci sono più morti riconducibili alla criminalità organizzata, circa 700 – pensa che i morti del terrorismo rosso e nero dal ‘69 all’85 sono 485 – tra cui due poveri signori a Lamezia Terme che sono operatori ecologici incensurati, brave persone. Li uccidono per dare un segnale all’amministrazione comunale sull’affidamento dell’appalto della nettezza urbana. Sciolgono il Comune – uno dei primi comuni sciolti in Italia per infiltrazioni della ‘Ndrangheta – e arriva dopo un paio d’anni una nuova amministrazione, guidata da Giannetto Speranza, una Giunta di centrosinistra che dura due mandati, dieci anni; contemporaneamente parte una repressione giudiziaria formidabile su Lamezia. Dopo queste due amministrazioni virtuose si torna alle elezioni e la nuova amministrazione viene sciolta per mafia una seconda volta. Continua la repressione e iniziano altri dieci anni di amministrazioni virtuose. Qualche mese fa però hanno sciolto per la terza volta il Comune di Lamezia Terme. Significa che in ventisette anni ci sono stati circa vent’anni di buona amministrazione di persone oneste, che cercavano di tenere fuori la ‘Ndrangheta, facendo gli appalti come si deve, una repressione che ha ripulito il territorio da tutti quei mafiosi, ma hanno sciolto ancora il Comune. Allora se non basta la buona amministrazione, se non basta la repressione vuol dire che c’è qualcosa nella cultura che non va bene, dobbiamo cambiare noi! E quel modello di antimafia che hanno propagandato le associazioni antimafia in questi anni è perdente. Poi ci sono gli sciacalli della destra, come quelli che ce l’hanno con le ONG o con Lucano, che dicono che fanno lucro, no, sono semplicemente inadeguati ai nostri tempi.

Come i giornalisti che dicono “La mafia fa schifo”, ma quello lo diceva anche Cuffaro, che è stato condannato per favoreggiamento e ha scontato cinque anni a Rebibbia, lo scriveva sui manifesti elettorali, sui muri e sulle piazze d’estate in Sicilia. Anche “La mafia è una montagna di merda” lo poteva dire Peppino Impastato quarant’anni fa che era solo a Cinisi, aveva il papà mafioso, uno zio capomafia e Badalamenti a cento passi, ma dopo quarant’anni un giornalista ha il dovere di lanciare delle idee, di trovare informazioni in più, di metterci un po’ di sapere. Ecco, questa antimafia “carrozzone” di retorica, di grida, di slogan, di spot, ha negli ultimi anni intossicato e va superata, perché la retorica sotterra i fatti, li seppellisce, questo è il problema, si sono rivelati non all’altezza per una sfida di questo genere. Ad esempio, a gennaio 2016 c’è la scoperta degli atti su Montante, dove i magistrati ipotizzano un rapporto continuativo con i capi di Cosa Nostra del suo territorio dal ‘90 ad oggi, 26 anni: riciclaggio di denaro, dossieraggio; pochi giorni dopo Libera fa un protocollo di legalità con gli amici di Montante. Sono complici? Neanche per idea: sono ignoranti e inadeguati, non all’altezza di affrontare certi temi.

Come lo Stato, che tanto è stato efficace nella repressione poliziesco-giudiziaria quanto è stato incapace di leggere che la mafia ritornava quella di prima, tant’è che la promiscuità con gli apparati dello Stato è stata totale in alcune zone d’Italia. Beni confiscati: una macchina repressiva formidabile, con cui sono in grado di scovare e sequestrare tutto, ma un’assoluta incapacità da parte dello Stato di gestire questo grandissimo tesoro che è abbandonato.

E poi le stragi: i magistrati hanno fatto con grande fatica revisioni di processi, indagini sulle indagini su Borsellino, faticose, lunghe, complicatissime dopo tanto tempo, ce l’hanno messa tutta e hanno fatto un buon lavoro, io vedo il bicchiere mezzo pieno. Però c’è la magistratura di Caltanissetta che è competente per le stragi che ha una sua linea, Palermo ne ha due, un’altra ce l’ha Firenze, un’altra ancora Reggio Calabria, non si siedono intorno a un tavolo da anni per decidere una strategia comune e non puoi dare la colpa al procuratore nazionale De Raho che si è appena insediato o all’altro che c’era prima, perché hanno delle loro competenze, se non sono riusciti a farlo vuol dire che non ci sono le condizioni e le leggi per poter coordinare in pieno tutto questo. Il risultato è che ci sono dei muri di incomunicabilità tra una procura e l’altra e vanno in direzioni opposte, su Faccia da Mostro per esempio, che è considerato l’autore di miliardi di cose a Reggio e a Caltanissetta è considerato un cialtrone: così si rimane disorientati. Penso alle polemiche interne alla Procura di Palermo per la trattativa; la la Procura della Repubblica di Caltanissetta, che ha fatto tutte le indagini, è stata attaccata anche dai familiari delle vittime in maniera furiosa, in modo ingeneroso secondo me, mentre qualche giorno fa Fiammetta Borsellino invece ha fatto una bellissima intervista dando atto ai magistrati di Caltanissetta del loro impegno e della loro serietà. Sono tutte persone competenti, dovrebbero parlarsi, anche io che me ne occupo da tanti anni sono disorientato.

[Vorrei farti un’ultima domanda..

Ne faccio una io: sono stato chiaro? Anche sull’antimafia, spero di essere stato chiaro. Su Mafia Capitale Ciotti non ha detto una parola, prima e durante, perchè? Sul sistema Montante ha detto che ce la si prende più con l’antimafia che con la mafia; perché quella è antimafia? Tano Grasso ha firmato protocolli a raffica con Montante, ma era così difficile accorgersi di che tipo era? Ripeto: non sono complici, neanche per idea, sono solo inadeguati. Io non ho pregiudizi. Se c’è qualcuno dell’antimafia che ruba, ci sono i carabinieri che intervengono. Prendiamo il caso di Maniaci: io non entro neanche nel dettaglio delle accuse, dal punto di vista giudiziario è un caso che non mi interessa, mi interessa dal punto di vista sociale e culturale. L’antimafia non si fa come quella di Maniaci, gridando e urlando, su questo non ho dubbi, sono stato 25 anni a Palermo e non ho mai visto Maniaci in vita mia, non è il mio tipo di giornalismo. Questo non significa che lui è un lazzarone io chissà che cosa, però una cosa la posso dire, non si possono prendere in giro le persone perché se tu subisci l’attentato dei cani e sai esattamente chi è stato – perché al telefono dice che era l’amante – e poi vai in TV e dici che la mafia ti ha minacciato, allora ribalti una cosa terrificante, perché per un secolo i delitti di mafia sono stati riconducibili a questioni private, a storie “di pelo e di femmine”, e tu con una parola ribalti la storia di femmine la fai diventare una storia di mafia! C’è qualcosa che non va, lì io qualcosa da dire, ma sulla sua vicenda giudiziaria non ho il diritto di intervenire. E’ sempre un problema di cultura, di sapere e di metodo.]

L’ultima domanda è più personale e un po’ provocatoria: quando hai deciso di fare il giornalista e perché hai deciso di occuparti di mafia, sempre che ci sia una risposta?

Rispondo quasi con un insulto! Io sono di Caltanissetta, ho cominciato a fare il giornalista per caso. Io sono un “cronista idrico”, nel senso che su 100 articoli 99 erano sull’acqua che non c’era, quindi so tutto di acqua, ho fatto inchieste in giro per l’Italia, la mia specialità era l’acqua che non c’era. Non parlo di me, parlo di qualcuno più autorevole di me, Sciascia: lo chiamavano “lo scrittore antimafia”, nel ‘61 ha fatto conoscere con “Il giorno della civetta” la mafia agli italiani. Scrittore antimafia, giornalista antimafia, giornale antimafia…io ho lavorato al giornale “L’Ora”, ma c’era la guerra di mafia, un giornalista di che cosa si deve occupare, di pupi di zucchero, di frutti di martorana? Un giornalista si occupa della realtà in cui è immerso, là c’era la mafia e ci siamo occupati di mafia. Il giornale “L’Ora”, un giornale antimafia? Se tu chiedi ai superstiti, io sono entrato nel ‘79, il grande giornale era finito nel ‘76, quando c’ero io era un giornale che aveva già subito delle perdite importanti. Il vero giornale è quello degli anni ‘50-’60 e primi anni ‘70. Era un piccolo grande giornale che dava le notizie mentre “Il Giornale di Sicilia” non le dava, quindi un giornale che dà le notizie è un giornale antimafia? Altra retorica infame. Era un piccolo grande giornale pieno di giornalisti straordinari, con un direttore straordinario, una piccola Repubblica del tempo, ma non era un giornale antimafia, io non mi sono mai sentito un giornalista antimafia. A parte che non mi sono occupato solo di mafia, mi sono occupato di esteri, poi sai quante volte ho provato a staccarmi dalla mafia, ma giustamente in un giornale se c’è da scrivere qualcosa di mafia, dopo 40 anni che ci lavoro, a chi chiedono pezzi di mafia? Ma è giusto così, io ho provato a fare altro ma mi hanno sempre preso per i capelli e portato lì, mi sarebbe piaciuto occuparmi di ciclismo per esempio, sai quante volte ho chiesto a Scalfari o a Ezio Mauro di andare a fare il Giro d’Italia, ma mi hanno sempre detto di no! Eppure mi devo sentire il tuo insulto “giornalista antimafia”! Se a Palermo c’era la guerra di mafia di che cosa dovevo occuparmi, di panelle, di pasta con le sarde? Qualcuno lo faceva, giornalisti che si voltano dall’altra parte. L’altra cosa che odio è quando mi chiamano “giornalista d’inchiesta”, ma già è difficile fare il giornalista! E poi tutti parlano di giornalismo d’inchiesta, piace quando è lontano da casa ma poi quando è vicino ecco che parlano di macchina del fango…

Grazie, è la risposta più bella che potessi darmi.

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E non perderti l’appuntamento del prossimo mese con #microfonoinmano, le interviste di Mafie sotto casa 🙂