A voi la nona puntata di #microfonoinmano, la nuova rubrica di Mafie sotto casa: l’intervista a Davide Mattiello. Impegnato da una vita in associazioni che promuovono l’educazione alla cittadinanza e la lotta alle mafie, Davide Mattiello è stato eletto deputato nella XVII legislatura (2013-2018) e ha preso parte ai lavori della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie.

Pur sapendo che è impossibile riassumere in poche parole anni di lavoro, sfociati in oltre seicento pagine di Relazione finale, quali sono state secondo te le “rivelazioni” più significative emerse dai lavori della Commissione, dal punto di vista della nostra comprensione del fenomeno mafioso oggi?

È molto interessante la domanda impostata in questo modo: ne approfitto per chiarire una cosa. La Commissione Parlamentare antimafia è un organo parlamentare, con poteri inquirenti, il cui ruolo è di alimentare ad ogni nuova legislatura una consapevolezza quanto più approfondita e trasversale del fenomeno mafioso tra le forze politiche presenti in Parlamento. La Commissione non giustifica la propria esistenza soltanto se scopre qualcosa che prima non si conosceva, ma nella misura in cui ad ogni legislatura rappresenta l’occasione eminente per una quota di parlamentari – rappresentativa di tutte le forze politiche – di capire a che punto è la notte, che cosa sta succedendo, qual è la fenomenologia della presenza delle mafie e qual è il livello di prevenzione e contrasto; deve inoltre valutare le criticità sulla base della legislazione vigente e capire che cosa correggere, modificare o introdurre. Mi fa piacere specificarlo: altrimenti il rischio è pensare che la Commissione Parlamentare antimafia – che è vero ha poteri inquirenti – sia come un’altra Procura antimafia. La Commissione antimafia della XVII legislatura ha portato avanti nell’arco di quattro anni un monitoraggio approfondito della situazione esistente, quindi mafie, da un lato, e strumenti di contrasto – DIA, DNA, DDA e quant’altro – dall’altro. Ha fisicamente visitato tutte le Distrettuali italiane, non è scontato che lo faccia: che la relazione finale sia di oltre seicento pagine si spiega in questo modo, una ricapitolazione dell’esistente.

Per quanto riguarda i punti focali dei lavori, poi, il primo è rappresentato sicuramente dalle misure di prevenzione patrimoniale. La Commissione ha lavorato subito, tanto e coralmente, per analizzare la vicenda di tali misure, come funzionano, o non funzionano e che cosa c’è da fare, tanto è vero che ha elaborato due proposte di legge di riforma che poi sono confluite nella più complessiva riforma del codice antimafia e in particolare delle misure di prevenzione patrimoniale, di cui sono stato relatore. È una vicenda che partiva sia fuori dal Parlamento, da associazioni come Libera, Avviso Pubblico, ARCI, CGIL, che chiedevano una riforma del sistema di prevenzione, sia dentro al Parlamento all’interno della Commissione Antimafia. Questi due torrenti si sono incontrati nella Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, di cui facevo parte: insieme a Giulia Sarti eravamo gli unici due deputati a stare in entrambe le Commissioni e quindi abbiamo completato quel pezzo di lavoro.

Un secondo filone, che mi sta particolarmente a cuore è quello del sistema di protezione dei testimoni di giustizia. Io sono stato presidente del quinto comitato della Commissione Antimafia, che si occupava di testimoni, collaboratori e vittime di mafia, dove abbiamo deciso di occuparci prioritariamente dei testimoni, perché dal punto di vista culturale questi purtroppo sono spesso stati confusi coi collaboratori. Questo lo si deve ad una inadeguata maturità culturale, che però attinge anche ad una inadeguata elaborazione giuridica; esiste infatti una legge del ‘91 dedicata ai collaboratori di giustizia, mentre alcune norme dedicate ai testimoni di giustizia (l.45/2001) andavano solo ad emendare quelle sui collaboratori. Insomma, mancava uno statuto dei testimoni di giustizia, che non solo desse dignità al ruolo del testimone, distinguendolo radicalmente e per sempre da quello del collaboratore, ma che poi concretamente sviluppasse alcuni servizi e tutele specifiche. Abbiamo fatto un’inchiesta, approvato all’unanimità la relazione, scritto la proposta di legge di riforma di tutta la materia, approvato trasversalmente quella proposta di legge, che proprio per questo ha come prima firmataria la Bindi e come secondo Gaetti, che era il vicepresidente. Siamo riusciti a portarla in Parlamento ed approvarla a anche di questa sono stato il relatore di maggioranza.

Terzo “fuoco”, molto importante, su cui si è aperto il vaso di Pandora, è il ruolo della massoneria. La Commissione non ha mai inteso fare un’inchiesta sulla massoneria in generale: trattandosi della Commissione Parlamentare antimafia, l’inchiesta aveva ad oggetto il tentativo della mafia di entrare nelle logge massoniche, oltretutto circoscrivendo questa indagine a due sole regioni italiane – Sicilia e Calabria – e a solo quattro Obbedienze massoniche. Questa è una vicenda importante che si è aperta nell’agosto del 2016 ed ha avuto una fiammata nel marzo 2017, quando, dopo reiterati tentativi di acquisire amichevolmente gli elenchi degli iscritti di queste logge, andati tutti a vuoto per l’opposizione ostile e strumentale dei Gran Maestri e in particolare del Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, Bisi, la presidente Bindi, d’accordo con tutto l’ufficio di presidenza, decise – fu un caso eccezionale – di utilizzare fino in fondo i poteri straordinari che sono propri della Commissione. Mandò la Guardia di Finanza a perquisire le sedi di queste Obbedienze e a sequestrare manu militari gli elenchi – quelli che sono stati trovati. Questa è una vicenda su cui magari scriveremo due libri perché uno non è sufficiente…

Quarto “fuoco” della Commissione, che personalmente ho seguito meno, ma che mi ha impressionato moltissimo, è il rapporto tra mafia e calcio, in particolare tra ‘ndrangheta e tifoserie, a cui è seguito un approfondimento significativo su camorra e Napoli calcio. Sono uscite informazioni molto interessanti, che hanno riguardato anche Torino e la curva juventina, in relazione a infiltrazioni ‘ndranghetiste e al controllo presunto da parte di alcune famiglie di pezzi della tifoseria ultrà, su cui ci sono processi in corso.

Quinto “fuoco”: il monitoraggio delle elezioni e tutta la questione delle candidature pulite. Noi abbiamo cominciato la legislatura nel 2013, dopo il Governo Monti e il tentativo, con la legge Severino, di impedire quantomeno la candidatura dei condannati in via definitiva per una serie di reati. La legge non poteva che fare così, dal momento che esiste la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio; inoltre, dal momento che quello all’elettorato passivo è un altro diritto fondamentale della nostra Costituzione, un soggetto rinviato a giudizio o condannato in primo grado non può vedersi compresso per legge il diritto a candidarsi. Infatti la legge Severino prevede l’incandidabilità o la decadenza dal ruolo in caso di condanna definitiva, mentre prevede solo la sospensione dal ruolo in caso di condanna in primo grado (es. De Magistris, De Luca), non la decadenza, che sarebbe illegittima costituzionalmente. Allora è iniziata, sulla spinta dei Cinque Stelle e di pezzi nostri, una riflessione politica che aveva per obiettivo la redazione di un codice di autoregolamentazione – non una legge – in forza del quale si impegnavano volontariamente a non candidare soggetti rinviati a giudizio per reati legati alla corruzione e alla mafia, operando quindi una grande anticipazione della tutela, etica e politica. Erano tutti d’accordo ed è quindi nato questo codice di autoregolamentazione, che prevedeva il diritto/dovere della Commissione di verificare che il patto fosse poi rispettato al momento della presentazione delle candidature. Lo sottolineo perché ci furono delle grosse polemiche contro la Bindi e la Commissione, ad esempio nel caso di De Luca, ma erano strumentali, perché il patto era stato sottoscritto liberamente da tutti i partiti e la Commissione aveva l’obbligo di dare corso a quel “contratto”, come si direbbe oggi; non potevamo fare diversamente. La verifica delle candidature è stato un lavoraccio perché – ma questo è una considerazione laterale –nel 2019 le banche dati informatiche ancora non si parlano, nel nostro Paese. Se io oggi fossi ancora in Commissione o al Ministero dell’Interno, o della Giustizia, questo problema lo metterei non dico in cima alla mia agenda, ma quasi. Abbiamo una infrastruttura informatica disarticolata, sembra fatta apposta per non funzionare o per funzionare male, per cui la circolazione fluida di informazioni sensibili e importanti, non al pubblico, ma almeno tra i soggetti istituzionali preposti alla prevenzione e al contrasto, non esiste. I casellari giudiziari non si parlano tra di loro. Quindi, quando noi abbiamo cercato di dar seguito a quell’impegno, ossia verificare che i candidati non fossero rinviati a giudizio, non è bastato inserire i dati del candidato in una banca dati per ottenere l’elenco dei carichi pendenti; è stato necessario chiedere singolarmente ad ogni Corte d’Appello. Se non fosse intervenuta la Procura Nazionale Antimafia, che si incaricò di dare una mano alla Commissione, chiedendo a ogni Distrettuale queste verifiche, sarebbe stato un lavoro pazzesco. Anche nel caso delle misure di prevenzione patrimoniali, quindi quanti sequestri, a che punto sono, confische definitive, provenienza, destinazione dei beni, chi li amministra – per quanto sia un po’ migliorata la situazione grazie a Open Regio, sito dell’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Beni Confiscati – la circolarità delle informazioni è un obiettivo ancora distante.

Questo si collega in parte alla seconda domanda che volevo farti: avendo lavorato all’interno della Commissione, quali sono secondo te i punti di forza e di debolezza, dal punto di vista del suo funzionamento e del dispiegamento delle sue potenzialità?

Ti rispondo aggiungendo però un ultimo punto alla domanda precedente, che è quello del rapporto mafia-politica, Stato-mafia, trattativa con annessi e connessi. La Commissione Parlamentare antimafia nella scorsa legislatura ha fatto la scelta, concordata con tutte le forze politiche, essendo in corso i dibattimenti in primo grado sia del processo sulla Trattativa, sia del Borsellino quater, di non entrare a gamba tesa, per non rischiare di fare un terzo dibattimento, con audizioni di giornalisti, testimoni, storici che inevitabilmente si sarebbero riverberate sui processi in corso. Non abbiamo però perso di vista la materia, abbiamo fatto alcuni approfondimenti e, appena i dibattimenti si sono conclusi, la Commissione ha alzato il fuoco sotto la pentola e credo sia da sottolineare la lunga audizione che proprio in finale facemmo con Nino Di Matteo, prima che uscisse la sentenza del processo sulla trattativa, in una fase in cui stava esplodendo la polemica sul Borsellino quater a Caltanissetta. C’è poi il tema dei comuni sciolti che, lo dico come annotazione – noi non ce l’abbiamo fatta, ci è mancato il tempo – richiederebbe una revisione della normativa relativa allo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni. Lo strumento è molto importante e io sono un sostenitore delle misure di prevenzione, che sono amministrative e non giudiziarie, perché rappresentano uno dei compiti fondamentali dello Stato, espressione della sua responsabilità continuativa nel monitorare e nel prevenire Non esiste infatti solo l’attività della magistratura: ci fermiamo ad essa, ci interessiamo molto meno della attività normale di monitoraggio, prevenzione e sanzione amministrativa interna al potere esecutivo, del ruolo del Ministero dell’Interno e delle Prefetture, del controllo sugli enti locali. Noi “politici di passaggio” sappiamo troppo poco di tutta quella materia. Ma al di là di questo, tornando a mafia-politica, ci tengo a segnalare una vicenda specifica, quella della latitanza a Dubai di Amedeo Matacena. Questo è un fatto, legato a una persona, ma sarebbe stupido non vedere attraverso quel fatto un sistema; quando noi ragioniamo sui rapporti mafia-Stato è esattamente di questo che parliamo, cioè dei punti di contatto tra ruoli istituzionali e ruoli criminali che, non da oggi e nemmeno dall’altro ieri, a con una certa continuità da centocinquant’anni, sono uno degli elementi fondativi dell’agire politico-istituzionale nel nostro Paese. Non è “La Trattativa”, è un modo di intendere l’esercizio del potere che comprende anche l’avvalersi di quelle organizzazioni, non è formalizzato da nessuna parte, non vale per tutti, perché ci sono state e ci sono tante persone perbene che intendono l’esercizio del potere nelle istituzioni come radicalmente inconciliabile con qualunque concessione a quella evidenza criminale. Ma altri, da sempre, che hanno avuto e hanno ruoli dentro le istituzioni, è come se guidassero un sidecar: sanno che c’è la motocicletta che sono le istituzioni, ma accanto a quella c’è sempre un sidecar, una “riserva” di potere criminale a cui attingere all’occorrenza, normalmente per mantenere lo status quo, l’ordine costituito. Questo spiega il fatto che Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno, stia a Dubai e oggi sia ancora lì nonostante tutto il rumore che abbiamo fatto. Abbiamo fatto di tutto, creato consenso, lavorato con il ministro Orlando per costruire un trattato di cooperazione giudiziaria e di estradizione tra Italia ed Emirati, che sono grandi partner su tantissimi fronti, sono il principale importatore di armi italiane nel mondo; con loro abbiamo protocolli su ogni cosa ma non esisteva un trattato di cooperazione giudiziaria e di estradizione. Gli Emirati sono una grande dépandance affaristico-finanziaria di una certa Italia: quando avevi qualche problema andavi negli Emirati e non ti toccava nessuno. Quando mi sono mosso su questa vicenda, a un certo punto decisi di contattare l’ambasciatore degli Emirati in Italia, gli proposi un incontro, gli esposi le mie preoccupazioni e lui allargò le braccia e mi disse “Onorevole Mattiello, ma noi abbiamo tutti i nomi dei vostri latitanti, se volete ve li diamo, ma chiedeteceli! Non ce li chiedete…”.

E con ciò rispondo anche alla tua seconda domanda: grazie ai padri costituenti, antifascisti, abbiamo una Costituzione rigorosa, all’interno della quale un principio fondamentale è l’indipendenza della magistratura e una altro principio fondamentale, figlio di questo, è l’obbligatorietà dell’azione penale. Entro certi limiti, l’azione giudiziaria è salva dalle pressioni politiche: il magistrato integerrimo in questo Paese se vuole può farsi forte della Costituzione. La Commissione Parlamentare Antimafia invece è un pezzo della politica italiana, si fa quel che si può e come si può, si possono fare cose molto interessanti ma senza perdere di vista ciò che è. Anche per questo – per non essere frainteso, anche perché ho amato molto quel ruolo, abbiamo fatto delle cose concrete e importanti e innovative – sono partito da quella considerazione: la Commissione antimafia fa bene il suo mestiere se consente al Parlamento, che ad ogni legislatura si rinnova almeno in parte dei suoi componenti e, nell’arco di un decennio, si rinnova quasi completamente, di avere una finestra sul fenomeno. Poi, a seconda delle congiunture, riesce a promuovere progressi significativi, intanto sul piano legislativo, a volte anche sul piano investigativo, nel senso che contribuisce a illuminare un fenomeno su cui magari la magistratura penale non è ancora arrivata o fatica ad arrivare perché cerca fatti di reato e prove; non ha un ruolo più ampio di ricostruzione storica e responsabilità politica. Quindi quando la Commissione è “in grazia” può fare una ricostruzione storica ancorata ad atti giudiziari, ma che non vi si esaurisce, perché anche tutti gli atti parlamentari sono una fonte, così come gli “atti” del CSM per capire cosa sia successo; il giudizio politico non si fonda solo sulle sentenze penali, ma su una complessità di elementi che la Commissione antimafia ha il diritto/dovere di fornire almeno in parte.

A seguire, la seconda parte dell’intervista a Davide Mattiello. Stay tuned!