A voi la settima puntata di #microfonoinmano, la nuova rubrica di Mafie sotto casa: l’intervista a Federico Ruffo.

Abbiamo intervistato Federico Ruffo, giornalista di Report, che ha realizzato un’inchiesta sui rapporti tra alcuni dirigenti della Juventus, ultrà e ‘ndrangheta.

Federico, la tua inchiesta per Report su calcio e ‘ndrangheta ha colpito molto. Di cosa ti sei occupato?

L’inchiesta nasceva fondamentalmente da un costola dell’indagine Alto Piemonte, un fascicolo estremamente articolato, realizzato dalla DDA di Torino per oltre 4 anni, ma che per essere chiusa ha attinto a materiale di altri procedimenti risalenti addirittura al 2009.
L’indagine aveva condotto i pm a individuare una ramificazione della ‘ndrangheta così profonda, nell’area a nord di Torino, da essere riuscita a impadronirsi anche del business del bagarinaggio all’interno dello Juventus Stadium, stringendo un accordo non solo con le altre famiglie, ma anche con i Drughi, il principale gruppo ultras bianconero. L’aspetto più controverso dell’indagine riguardava il ruolo della Juventus e di alcuni suoi dirigenti che, come emerso da anni di intecettazioni, avevano rifornito gli ultras di quote importanti di biglietti, pienamente consapevoli del fatto che i tagliandi erano rivenduti dagli ultras in alcuni casi a 6 volte il prezzo originale, con un guadagno di centinaia di migliaia di euro.

I dirigenti della Juventus erano consapevoli che questi soldi finivano nelle mani dei clan?

La parte più controversa dell’indagine riguardava appunto la consapevolezza da parte dei vertici della Juve del fatto che quei soldi finissero nelle tasche della famiglia Dominello, che per conto del clan gestiva gli affari legati allo stadio. Al termine delle indagini i magistrati non erano infatti riusciti a dimostrare la piena consapevolezza della Juventus di avere a che fare con esponenti della ‘ndrangheta, ma proprio qui è partita la nostra inchiesta: all’appello infatti, in tribunale, mancava proprio l’unico uomo in grado di fare chiarezza sull’intera vicenda, l’unico a conoscere tutti i protagonisti, essendo stato uno dei leader dei Drughi prima, un dipendente della Juventus poi, e perfino un informatore della Digos e dei servizi segreti. Quest’uomo era Raffaello Bucci. I pm lo avevano potuto ascoltare una sola volta, il 5 luglio del 2016, visto che il giorno seguente Bucci si sarebbe ucciso, lanciandosi da un ponte lungo l’autostrada Torino-Savona.

Cosa vi ha insospettito nella morte di Bucci?

Ad attirare la nostra attenzione sono stati proprio alcuni dettagli del fascicolo sulla sua morte, archiviata piuttosto velocemente come un suicidio: l’autopsia si era rivelata completamente sprovvista di foto del cadavere, nessuno sapeva in che condizioni fosse il corpo al momento della morte. Inoltre il telefono di Bucci era stato intercettato per quasi due anni quasi ininterrottamente, giorno e notte, ma nel fascicolo risultava un buco: tre ore durante le quali i server non avevano registrato un solo secondo di conversazioni, proprio le tre ore antecedenti il suo suicidio. Secondo i tecnici, quella mattina i server erano saltati a causa di uno sbalzo di corrente dovuto a lavori di manutenzione effettuati il giorno precedente. Quando, poche settimane dopo, un agente dei Servizi di Sicurezza si è presentato in Procura raccontando ai pm che Bucci era da anni un loro informatore, abbiamo capito che qualcosa era stato trascurato nelle indagini sulla morte di “Ciccio”. Ad avvalorare ulteriormente la nostra ipotesi, è giunta una fotografia. La ex compagna aveva infatti scattato due foto del cadavere all’interno della camera mortuaria, immagini che lo ritraevano con il volto coperto non tanto di escoriazioni, quanto di ecchimosi, soprattutto attorno ad un occhio, come se fosse stato colpito da un pugno. La perizia redatta da un anatomo-patologo di parte, su richiesta della famiglia, ci ha confermato l’incompatibilità, almeno apparente, di quelle ferite con la caduta.

Perché qualcuno avrebbe voluto uccidere Bucci? Dai qui, come siete andati avanti nell’indagine?

Da qui siamo partiti, dall’idea che Raffaello Bucci fosse morto in circostanze opache e che la sua testimonianza potesse risultare scomoda per tutti i protagonisti. Aver ritrovato sui suoi conti quasi 400mila euro, quasi tutti riciclati, ci ha fornito un’ulteriore pista: Bucci aveva tenuto una parte dei soldi del bagarinaggio per sé, ripulendoli. Qualcosa che di certo ai clan e agli ultras non sarebbe piaciuto, esattamente come l’apprendere che Bucci facesse il doppio gioco, informando i servizi segreti di ogni movimento in curva. A questo aggiungete il fatto che, nonostante fosse notoriamente un bagarino, la Juventus aveva deciso di assumerlo in società da quasi due anni. Una scelta curiosa.

Dopo la messa in onda della puntata, nello scorso ottobre, le reazioni – anche molto violente – non si sono fatte attendere. Fino all’attentato incendiario nella tua casa di Ostia. Si tratta di un avvertimento?

È difficile dire cosa sia accaduto a casa quella notte, sarei scorretto e avventato nel tentare di indicare con certezza una matrice. Fino a quando gli investigatori non individueranno i responsabili, qualunque valutazione è impossibile. Di certo il primo pensiero è andato all’inchiesta, non tanto per la vicinanza “temporale”, quanto per il clima di crescente odio che e si è innescato prima ancora che il pezzo andasse in onda e che, dopo il 22 ottobre, non ha fatto che montare, secondo una dinamica che non mi era mai capitata. Ad un tratto la fondatezza di quello che raccontavamo, il riscontro delle notizie, la loro veridicità, hanno cessato di avere importanza: se quello che raccontavamo non piaceva al tifoso, questo automaticamente lo rendeva falso, inattendibile, fazioso, figlio di un complotto anti Juve. Dimentichiamo che sono juventino anche io, per inciso. Dalla messa in discussione della professionalità all’insulto personale il passo è stato brevissimo, ma quando si è passati alle minacce fisiche, alla promessa di vendette trasversali, abbiamo intuito che il clima si stava facendo irrespirabile.
Questo detto, rimango convinto che, se avessero voluto andare fino in fondo, lo avrebbero fatto: incendiare la benzina avrebbe richiesto pochi secondi, disegnare una croce sul muro era un rischio inutile. Chiunque sia stato, a mio parere, voleva solo spaventare, ma ripeto, si tratta di una mia opinione.

FNSI, Usigrai, Ordine dei giornalisti e Articolo 21 hanno organizzato un presidio in tuo sostegno. La “scorta mediatica” è tornata sul litorale romano: dove vive Federica Angeli, giornalista di Repubblica, sotto scorta per le sue inchieste sulla mafia romana, e dove Daniele Piervincenzi ed Edoardo Anselmi di Nemo (Rai 2) sono stati presi a testate da Roberto Spada. Quanto è dura qui la vita di quei cronisti che si occupano di criminalità organizzata?

Il fatto di vivere ad Ostia non credo abbia avuto alcun peso, almeno non in questo caso. Io sono nato e cresciuto a Ostia. Ne conosco scorci, odori, ombre e luci, conosco la sua gente e i suoi sguardi, e più di tutto la considero casa mia. Mi è capitato in passato di lavorare a inchieste su Ostia e di ricevere attenzioni poco benevole, ma come è successo, succede e succederà ancora purtroppo ad ogni cronista che accende un riflettore sui flussi di denaro che passano per strade da cui non dovrebbero passare. Accade a Ostia così come accade a Milano, a Palermo, nel Veneto e in Emilia. Se accade più spesso, se più di frequente qualcuno finisce per essere attaccato in modo personale, se non addirittura fisico, è perché si abbassato perfino il livello dello spessore criminale con cui ci confrontiamo: qualunque criminale di spessore sa che fare rumore è nemico degli affari, che tirare una testata a un giornalista davanti ad una telecamera significa avere addosso gli occhi del mondo, che attentare alla sicurezza di un cronista dopo un’inchiesta tanto rumorosa significa amplificarne gli effetti, l’attenzione. È questo ad aver reso più difficile il mestiere: non il vivere in un posto piuttosto che un altro, ma più banalmente l’abbassarsi del rispetto per la verità.
È giusto mantenere l’attenzione alta, soprattutto davanti a casi di pericolo reale e costante, come quello di Federica Angeli o di Paolo Borrometi, dove c’è una guerra totale e dichiarata, con un nemico dichiarato che non vuole cedere di un centimetro, perché la tutela di questi colleghi preziosi e delle vite dei loro cari passa anche per l’attenzione che gli dedichiamo, per il non farli sentire mai isolati.
Dall’altra parte dobbiamo lavorare sul recupero del rispetto per la verità: è importante che la gente torni ad avere fiducia nella categoria, che colga a pieno la profonda differenza tra il giornalismo d’inchiesta e quello d’opinione o peggio ancora quello delle fake news. Dobbiamo tornare a fare in modo che chi ci legge, ci ascolta, torni a crederci, a fidarsi del nostro metodo. Quando riusciremo a recuperare questa credibilità, questa importanza, allora la scorta mediatica sarà il nostro stesso pubblico. Sarà la gente in piazza con noi, quella folla che scendeva in strada qualche anno fa dicendo “adesso ammazzateci tutti”.

Manifestazioni di solidarietà a parte, hai denunciato anche un certo clima di isolamento, soprattutto da parte dei colleghi della stampa sportiva. È così? Mentre lavoravi all’inchiesta, hai trovato forti ostilità nel muoverti su un terreno così spinoso?

Non c’è dubbio che quello che ha fatto più male sia stato il clima d’isolamento, di fastidio quasi che abbiamo percepito da una certa stampa sportiva, paradossalmente quella più importante. Siamo stati oggetto di polemiche preventive, prima ancora che andassimo in onda, cavalcate ad arte per costruire le solite schermaglie da Processo de Lunedì: schermaglie che tanto piacciono, ma che non hanno fatto altro che amplificare un certo clima di odio, senza che nessuno spendesse mezza parola di appoggio o quantomeno di terzietà nei nostri confronti. I principali quotidiani sportivi sembravano più impegnati a difendere d’ufficio la posizione della Juventus (che per quanto ci riguardava non era parte in causa in quanto società, ma solo attraverso le responsabilità dei singoli dirigenti su singoli fatti criminali), che ad analizzare l’inchiesta e o fatti emersi. Nessuno ha affrontato la questione morale che si nascondeva dietro all’idea che una delle prime quattro società al mondo legittima e avalla il bagarinaggio come mezzo di scambio, come moneta per comprare la tranquillità all’interno dello stadio. Quando qualcuno ha pensato di poter cospargere di benzina la mia abitazione, in tanti si sono mossi per far sì che non mi sentissi solo, tanti colleghi, ma dai grandi quotidiani sportivi soltanto Ivan Zazzaroni mi ha appoggiato pubblicamente. Non è un tweet a fare la differenza, ma il messaggio che ne deriva. Se per timore di perdere il favore di 10 milioni di lettori juventini, eviti di mostrare sdegno per l’accaduto, lo rendi legittimo, rendi legittimo l’isolamento. Fai passare l’idea che sia normale sacrificare la verità al tifo, permutarla con una tessera del tifoso, al punto da pensare che “un po’ se l’è cercata”.

“La ‘ndrangheta è l’organizzazione criminale più attiva nel mondo del calcio”. Lo ha detto un anno fa il capo della polizia, Franco Gabrielli, in audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Che idea ti sei fatto, con il tuo lavoro, del legame tra le organizzazioni criminali e il mondo del calcio?

Il calcio è un fatto umano, una passione. La ‘ndrangheta è un fatto umano, un orrore. E ambedue si muovono attorno ai soldi. Poco, ma sicuro, i soldi ci hanno dimostrato di saper mettere tutti d’accordo.
C’è un elenco lunghissimo di episodi in cui la ‘ndrangheta ha mostrato non solo interesse, ma piena padronanza del mezzo calcistico: lo spareggio per la promozione nell’allora Serie C2 tra Locri e Crotone, comprato con una partita di Kalashnikov e 200mila euro. Le confessioni del pentito Luigi Bonaventura sul suo ruolo nel Crotone, squadra di proprietà ancora oggi di suo cugino Raffaele Vrenna. Le infiltrazioni della ‘ndragheta tra i tifosi del Milan e il numero impressionante di partite accompagnate da flussi anomali di giocate, in zone controllate dai clan. Seguendo quei soldi, come si è sempre fatto nelle indagini sulla mafia, troviamo un racconto. Il punto è se vogliamo raccontarlo. Il giorno dopo, anziché essere martedì, può essere il giorno in cui ci ricordiamo che il calcio vive della nostra passione, che sta solo a noi cambiare le cose. È sufficiente prendere il telecomando e spegnere. In questo modo invertiamo il rapporto di forza: sono loro a dipendere dalla nostra passione e, se gliela leviamo, sono loro a essere costretti a fare quello che noi riteniamo giusto.

 

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E non perderti l’appuntamento del prossimo mese con #microfonoinmano, le interviste di Mafie sotto casa 🙂