Gaetano Saffioti è un imprenditore e testimone di giustizia. Vive sotto scorta da 18 anni, da quando nel 2002 decise di denunciare la rete di ricatti e di estorsioni con cui da anni la ‘ndrangheta soffocava la sua azienda di movimento terra e calcestruzzi di Palmi, in provincia di Reggio Calabria.

1 – “Quando un imprenditore ha lo status di testimone di giustizia non riesce neppure a poter fare beneficienza”. In occasione dell’anniversario del terremoto di Amatrice hai pubblicato questo tweet, che ha fatto molto parlare. A che episodio fai riferimento?‬‬‬‬‬

Misi a disposizione a titolo gratuito macchine movimento terra e automezzi per far fronte all’emergenza terremoto e successivamente per la rimozione delle macerie. Ma per una serie di “scaricabarile” e trafile burocratiche non mi è stato consentito di prestare la mia opera, accampando le scuse più stupide e banali. La realtà è che, acclarato da che parte stai, diventi poco appetibile per il sistema collusivo e corruttivo vigente in Italia, e di conseguenza ti sei autoescluso dagli appalti o da ogni forma di inserimento produttivo legale in qualsiasi opera.

Ho voluto dimostrare che le mie non sono teorie o paranoie. Se chi denuncia, non volendo vivere di assistenzialismo né di elemosine, si offre addirittura di lavorare gratis per la collettività e viene respinto, quale messaggio devastante arriva a chi vuole seguire questo percorso di vita?

2 – Nel tuo “sfogo” sui social, a distanza di tre anni dal quel 2014, parli di esclusione dalla comunità e di un trattamento non degno di un paese di civile. Quale trattamento è riservato, oggi in Italia, ai testimoni di giustizia e a chi decide di sfidare a muso duro la criminalità organizzata?‬

Più che uno sfogo è stata la volontà di far capire in quale realtà viviamo, mostrando la sua ipocrisia, indifferenza, tolleranza. Assuefazione e mancanza di indignazione la fanno da padrone. Ci si riempie la bocca di legalità, si firmano protocolli di legalità, codici etici, che restano solo scritti ma non vengono attuati. Più che parlare di legalità, bisognerebbe praticare la legalità!

3 – La tua odissea comincia nel 2002 quando da imprenditore decidi di denunciare i soprusi della ‘ndrangheta, le estorsioni, gli incendi, le minacce. Raccontaci come è andata.

La mia è l’esperienza di un calabrese, un imprenditore che ha fatto “la scelta sbagliata”. Dopo il servizio di leva, mi iscrissi alla Camera di Commercio per dare ufficialmente corso alla mia “vocazione” e aprire la mia attività nell’edilizia. Era il marzo 1981 e da subito fui vessato e perseguitato dalla ‘ndrangheta: più l’azienda cresceva, più le violenze aumentavano, quasi fosse un delitto quello di crescere, creare occupazione e benessere per sé e per gli altri. Ma le regole della ‘ndrangheta sono queste: devi chiedere se puoi o non puoi partecipare ad un appalto, assumere una determinata persona, acquistare un terreno, aprire una nuova attività o acquistare dal tale fornitore e via dicendo Oramai avevo capito quali erano le regole non scritte dello “Stato ‘ndrangheta” e a cosa andavo incontro non rispettandole. Nonostante ciò cercai sempre di eludere le imposizioni. A volte con buoni risultati, altre volte con ritorsioni pesanti, da danneggiamenti ad atti dinamitardi.

Anche se le avevo messe in conto, quando si verificavano provavo un grande senso di sconforto, di impotenza. Soprattutto per l’incapacità di reagire come avrei voluto, perché ero frenato dalle conseguenze di una scelta così “controcorrente”. D’altronde, quando andai a denunciare un attentato incendiario che avevo subito, fu lo stesso maresciallo dei carabinieri a distogliermi dall’idea di fare i nomi dei probabili esecutori. Mi disse che sarei andato incontro alle più terribili ritorsioni ed era meglio che pensassi alla mia famiglia, invece di intraprendere una strada che non mi avrebbe portato da nessuna parte. Già, l’incolumità della mia famiglia mi stava di certo a cuore più di tutti i beni che possedevo, ma mi chiesi se questo era davvero il comportamento giusto da tenere. Ero combattuto: trovare la mia dignità o mantenere il lavoro, gli operai, la serenità familiare?

4 – E, a quel punto, qual è stata la tua scelta?

All’inizio cercavo solidarietà nei colleghi di sventura. Le risposte erano sempre le stesse: “Ma se lo Stato non fa niente, cosa possiamo fare noi?”, “Abbiamo una famiglia, non possiamo rischiare”, “è stato sempre così e così sarà fino alla fine dei tempi” oppure “Meglio andare via, ma non denunciare”. Insofferenza mischiata all’impotenza. Andare via e continuare a essere sottomessi.

Ma io non avevo fatto niente di male, e non volevo fuggire dalla realtà, tanto meno volevo insegnare a mio figlio ad adattarsi a queste regole barbariche. Non solo, ero cosciente che potevo apportare il mio piccolo contributo in favore di quella comunità sana che vorrebbe emergere e che non trova la spinta necessaria per farlo. Ho creduto che fosse anche mio dovere di cittadino calabrese, che ama la propria terra e che crede nella libertà, affrontare la questione nel modo più giusto e coerente. Nel 2002 denunciai tutto alla magistratura e decisi di non andarmene, di continuare a lavorare nella mia terra. Ho dovuto ingoiare tanti rospi, ma finalmente ero libero da questa fosca, dolorosa piaga, presenza endemica del territorio.

4 – Quando hai incontrato per la prima volta la ‘ndrangheta?

La prima violenza della ‘ndrangheta la provai già alla tenera età di nove anni: ero in vacanza in una colonia estiva e dopo tre giorni di permanenza mi raggiunse mio padre (che era produttore d’olio d’oliva e frantoiano), perché aveva ricevuto minacce e, temendo per la mia incolumità, mi ordinò di abbandonare la vacanza. Mia madre, quando raggiunsi la maggiore età, mi spiegò le vere ragioni che spinsero mio padre suo malgrado a portarmi a casa. Solo allora, lo ammetto, riuscii a capirlo e comprenderlo. Mio padre inculcò già dalla giovanissima età a me e ai miei fratelli (siamo 6, 4 fratelli e 2 sorelle), i valori della vita, della morale, del lavoro, dell’onesta, del rispetto verso gli altri. Questa sua scuola di vita è stata molto importante per me e ne sento molto la mancanza. Non ci parlò mai apertamente di mafia e ci tenne estranei alle vicende intorno a noi, vista la nostra giovane età, ma dopo la sua prematura scomparsa, questo peso tocco a mia madre. Non fu facile per una donna, vedova per di più e madre di 6 figli minorenni, con una azienda da mandare avanti. Ma l’arrivo dell’ennesima richiesta estorsiva la spinse a rivelarci tra i pianti, la sua grande preoccupazione e la paura di non riuscire a uscirne fuori. Dicemmo in coro di rivolgersi alle forze dell’ordine, ma lei ci supplicò di tenere a mente quale fossero le regole che vigevano (e ahimè vigono tutt’ora) nella cultura calabrese: se ci si rivolge alle forze di polizia si è infami e traditori e l’unica scelta possibile è quella di cercare un intermediario, pagare in silenzio o andare via dalla propria terra. Mia madre ci spiegò che da sempre nel territorio vivono famiglie storiche che controllano e gestiscono sia le attività che la vita delle persone, che è un fatto normale dare loro quello che chiedono perché un “diritto acquisito”. Cominciai a chiedermi se vivevo in Italia o in un paese dove vige ancora la forza bruta, governato da famiglie e regole tribali. Insomma se ero libero. Da lì capii in quale contesto avrei dovuto vivere e lavorare. Nonostante tutto, i pochi ma essenziali insegnamenti di mio padre mi fecero crescere, studiando e lavorando fino a tarda ora, per portare il mio personale contributo al bene familiare. Prima nell’azienda da lui creata e, successivamente, seguendo la mia vocazione nel settore edilizio.

5 – Sarebbe logico pensare che lo Stato deve sostenere gli imprenditori testimoni di giustizia e riconoscere loro la scelta fatta. Invece tu racconti di una strada in salita, sempre piena di ostacoli. Come si riesce a sopravvivere e a portare avanti il proprio lavoro?

Con grande forza di volontà, con la passione e l’entusiasmo per ciò che credi e il lavoro che fai. La nostra vita non dipende da cosa succederà domani, ma da come sapremo reagire. Se scegliamo di essere protagonisti nello scenario della nostra vita, e non semplici comparse, nulla sarà impossibile. Ho dimostrato con i fatti che è possibile: basta volerlo.

6 – Di quali interventi statali ci sarebbe bisogno per sostenere chi sceglie di denunciare?

Ce ne sarebbero parecchi. Dal punto di vista legislativo, ad esempio, prevedere una legge che riservi anche una piccola percentuale di lavori pubblici a favore di chi ha denunciato. Come avviene per i diversamente abili. Nel nostro caso si tratta di un “handicap ambientale”, della difficoltà a essere accettato di un imprenditore e della sua impresa se si oppongono alla ‘ndrangheta. Mi chiedo se non sia possibile, quantomeno nei lavori pubblici, rendere “obbligatorie” commesse alle realtà che denunciano, creare una corsia preferenziale, o meglio, “equiparativa” per eliminare questo gap.

Così un imprenditore non si troverebbe costretto a lasciare il luogo di origine per mancanza di lavoro e incapacità di provvedere alla propria sussistenza in modo dignitoso.

Questo provocherebbe un danno alla ‘ndrangheta che, almeno in parte, non potrebbe mettere le mani negli affari pubblici tramite imprese compiacenti. Le grandi imprese avrebbero una “giustificazione” nei confronti della ‘ndrangheta e sarebbero supportate dallo Stato. Lo Stato darebbe un segnale forte, importante alla società, riprendendosi il ruolo che gli compete e acquisendo di fatto la fiducia dei cittadini. Facendo così, nessuno ne sarebbe danneggiato, tranne la ‘ndrangheta, perché ci sarebbe la certezza di lavori fatti a regola d’arte, nella piena legalità e a tutela dei lavoratori.

6 – “Meglio liberi che schiavi del sistema”, il tuo post di agosto terminava così. Lo pensi ancora?

Assolutamente sì. Scegliere di vivere la vita, anche a piedi scalzi, ma mai in ginocchio! Credo che si possa e si debba cambiare, con tutto quello che ci può accadere. Si deve combattere in prima linea, in trincea a fianco di chi ne ha bisogno. Come non si abbandona un amico in difficoltà, così non si deve abbandonare una terra e i suoi abitanti. Perché non bisogna fare come lo struzzo o le tre scimmiette, se si vuole veramente cambiare pagina. Certo, con la volontà di tutti, in sinergia con le istituzioni, con lo Stato, ma bisogna che la gente, anche quella comune, anche quella che crede di essere immune da questo fenomeno, si convinca a fare la sua parte.

Se l’intervista ti è piaciuta, non tenerla per te: condividila con le persone a cui pensi possa interessare!

E non perderti l’appuntamento del prossimo mese con #microfonoinmano, le interviste di Mafie sotto casa 🙂