A voi la prima puntata di #microfonoinmano, la nuova rubrica di Mafie sotto casa. 

Leonardo Palmisano nasce a Bari nel 1974. Scrittore, sociologo ed etnografo, Palmisano è un profondo esperto dei temi riguardanti il rapporto tra il lavoro e la criminalità organizzata.

Dopo il successo di “Ghetto Italia” ha scritto “Mafia Caporale”, libro in cui emerge profondamente la sua preparazione in merito e la sua identità di sociologo. Va tra la gente, gira tutta l’Italia ascoltando e raccontando storie che hanno a che fare con lo sfruttamento, il lavoro, la mafia e il ricatto. Tante le vite con cui entra in contatto che, seppur diverse tra loro, hanno un comune denominatore: tutte sono segnate dal fenomeno del caporalato. Donne, uomini, bambini, anziani, italiani e stranieri: non c’è alcuna differenza.

Un viaggio, quello che Palmisano compie nel proprio libro, che parte dalla sua regione, la Puglia e che, passando dal centro Italia, si spinge fino all’estremo nord.  Il quadro che emerge è a dir poco allarmante e si comprende quanto sia difficile, oggi, descrivere il fenomeno del caporalato che, prima di essere un reato, è un immenso fenomeno sociale.

 

 

Leonardo, qual è secondo te la differenza della percezione della presenza del fenomeno mafioso tra il sud, il nord e il centro Italia?

Esistono innanzitutto alcuni strumenti che ci consentono di conoscere le diverse modalità attraverso le quali si declinano i fenomeni criminali.  Una fotografia, ad esempio, ci è fornita dall’Istat, secondo cui nel 2015 sono stati ben 80 miliardi di euro i soldi derivanti dallo sfruttamento irregolare di esseri umani.

Questa è mafia caporale. Una mafia ancillare che si colloca sotto ai grandi sistemi criminali e ne fa da cerniera. La percezione del cittadino comune è vecchia, appiattita su un ragionamento che considera le mafie un fatto meridionale.

Al contrario, le élite politico-imprenditoriali centro-settentrionali sanno bene che, senza le mafie, gran parte della loro economia sarebbe crollata, durante la crisi. Ho attraversato l’Italia per arrivare a questa conclusione. Da sociologo ho tracciato l’ipotesi che non ci sia, oggi, un territorio che possa dirsi immune dalla presenza mafiosa. Persino la nuova economia è oggetto di questa infiltrazione.

 

Il 18 ottobre 2016 è approvata la legge n. 199/2016 recante “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”, ovvero la nuova legge contro il caporalato. È introdotta la sanzionabilità del datore di lavoro e non solo dell’intermediario, sono previsti l’applicazione di un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità, l’arresto obbligatorio in flagranza di reato e la confisca dei beni. La pena va da uno a sei anni di reclusione, con una multa da 500 a 1.000 euro per ogni lavoratore reclutato. Cosa ne pensi? Credi che sia uno strumento utile o manca di qualcosa?

Partiamo con il dire che, per fortuna, una legge finalmente c’è. Ma non basta in quanto va migliorata.  Innanzitutto, la normativa avrebbe dovuto prevedere la formazione degli Ispettori del Lavoro: nella provincia di Foggia, ad esempio, sono presenti solo otto ispettori per tutti i settori produttivi.

Come raccontato dai Procuratori Antimafia, è importante raccogliere le prove affinché queste possano essere riprodotte all’interno di un’aula di tribunale, al fine di provare un reato di mafia.

A livello politico bisogna dire due cose: innanzitutto manca la firma dell’allora ministro del lavoro Giuliano Poletti. In secondo luogo le amministrazioni locali, a partire dalle Regioni, non hanno capito ancora come introdurre quello che manca alla normativa. È una legge che deve essere migliorata anche nell’innalzamento delle tutele per i braccianti.

Se a denunciare infatti sono i lavoratori non comunitari, la legge Bossi-Fini non consente la costituzione di cooperative formate da lavoratori. Diciamo che lo scheletro normativo, al momento, è utile, ma manca il resto dell’impianto. Una volta avvenuta la confisca dell’impresa, ad esempio, che si fa?

 

Povertà, ricatti, assenza delle organizzazioni sindacali, pochi controlli, collusione e corruzione: sono questi spesso i fattori che incidono sul fenomeno del caporalato. Chi ha, secondo te, le maggiori colpe?

Indubbiamente lo Stato e le imprese. Lo Stato, nel momento in cui chiude gli occhi o si fa corrompere. Le imprese, perché lucrano sul lavoro consegnandosi ai sistemi criminali come verginelle inesperte.

Due responsabili per un sistema che sta letteralmente massacrando migliaia di esseri umani. Bisogna partire dalla consapevolezza che l’Italia si sta amalgamando nell’economia mafiosa, come nella legalizzazione dei sistemi criminali.

Facciamo un esempio: Expo. Quel maxi-cantiere ha rivelato che la necessità di consegnare i lavori in tempo è stato il punto debole, che ha permesso di introdurre nel sistema i Morabito, una delle famiglie di ‘ndrangheta più potenti al mondo. La ‘ndrangheta non entra subito, è chiamata in un secondo momento e bypassa ogni regola. Quando un sistema criminale entra nelle imprese, il primo effetto è la rarefazione della presenza sindacale e non si sta facendo riferimento solo al settore agricolo, ma anche a quello agroindustriale, dei servizi, della logistica e anche quello turistico.

 

L’uccisione di Soumayla nella piana di Gioia Tauro e le parole del sindacalista dell’Usb Aboubakar Soumahoro: questi due eventi hanno secondo te segnato una svolta nella percezione della pericolosità del fenomeno del caporalato?

Purtroppo non credo abbiano mosso molto. Nel breve periodo forse sì, ma sul lungo e sul medio no. Perché l’Italia mediatica preferisce costruirsi degli eroi, invece di analizzare fenomeni complessi come questo.

La risposta, quindi, si brucia con la copertina di un settimanale, dura una settimana, dopodiché i braccianti tornano ad essere considerati subumani e schiavi da Mafia Caporale.

 

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E non perderti l’appuntamento del prossimo mese con #microfonoinmano, le interviste di Mafie sotto casa 🙂