Alessandro Gallo è scrittore, attore e regista teatrale. Nato a Napoli nel 1986, vive a Bologna e da anni lavora nel campo dell’educazione alla legalità con progetti di teatro civile. Il suo ultimo romanzo, “Era tuo padre” (Rizzoli), racconta di tre fratelli che scoprono di essere figli di un boss della camorra e devono scegliere chi vogliono essere. Una storia che, tra realtà e finzione, è un’autobiografia…

Quando a quindici anni ho scoperto chi era mio padre leggendo un giornale, ho pensato che dovevo fare una scelta. O sottolineare subito la mia appartenenza al suo mondo, oppure invece sottolineare che appartenevo a mia madre, a un mondo pulito, fatto di sacrifici. Un’eredità completamente diversa, ed è questa che ho scelto.” Questa è la quarta di copertina del tuo nuovo libro “Era tuo padre”. Chi era tuo padre e quale mondo rappresentava?

Mio padre è stato un affiliato alla camorra e di conseguenza noi saremo diventati in poche ore “figli di…”. In terra di camorra l’eredità del male ha un peso che ti permette, in alcuni contesti, di difenderti, attaccare o non fare nulla perché sono gli altri, quel che resta del clan, che fanno qualcosa per te o per la tua famiglia. Un fastidioso tempo morto dove regna il dire e non dire, un luogo che non volevamo abitare e per farlo andava indicata a tutti la strada che davvero ci apparteneva, la strada che desideravamo intraprendere con orgoglio: quella di mia madre.

Sapevamo che avremmo vinto, che sarebbe stata la cosa giusta. Così è stato.

A quel punto fai una scelta, decidi di lasciare Napoli e partire. Cosa ti è scattato dentro? Tua madre, che nel libro mostri come un contraltare al mondo criminale di tuo padre, ti ha sostenuto in quel momento? Quale è stata la reazione della tua famiglia e degli amici?

La camorra spesso si presenta nella tua vita come un cerchio di fuoco, brucia attorno a te lentamente e tu ne subisci il calore alle guance, alle cosce, alle mani, ti rende fragile e provi sconforto perché attorno a te non trovi una via d’uscita da quel cerchio infernale che si stringe sempre di più divorando quel poco di aria sana che cerchi di ingoiare.

Mia madre è stata come il Dio del vento, il nostro Eolo: ha gonfiato i suoi polmoni, ha soffiato più che poteva per aprire un varco e farci andare via, seguire i nostri sogni, farci crescere lontano dalla puzza del male, del compromesso e della diffidenza.

Oggi, in casa e non solo, qualcuno trova sempre occasione per sottolineare che io mi arricchisco raccontando le disgrazie che abbiamo avuto. La camorra non è una disgrazia, ma una scelta di vita ed io questa scelta l’ho vista entrare in casa bruciando ogni sentimento sano. Ho il dovere di raccontarla e metterla sempre in discussione. Lo faccio con l’unico strumento che credo abbia ancora un peso ed un valore tra i ragazzini: la narrazione. Scritta o recitata. Davanti ad una storia raccontata bene nessun ragazzo fa un passo indietro per non ascoltarla. E questo fa paura a chi al contrario tenta tutti i giorni di giustificare la grossa macchina dell’inganno della camorra.

A Bologna scegli il teatro, scegli di mettere in scena la tua stessa storia e portarla soprattutto ai più giovani e agli studenti. Credi che questa sia la strada giusta per raccontare la mafia ai ragazzi? La tua vicenda personale può dare la forza ai ragazzi cresciuti in famiglie di camorra a ribellarsi, ma può insegnare molto anche a quei ragazzi convinti di non aver mai visto la mafia da così vicino…

La mia storia personale è arrivata nella mia professione abbastanza tardi.

Ho studiato teatro al DAMS, ho avuto la fortuna di lavorare subito nel settore, come attore, autore ma anche come organizzatore.

Ho fondato Caracò una piccola associazione culturale assieme ad un gruppo di amici e colleghi coraggiosi, con i quali ancora oggi dopo oltre 11 anni collaboro a progetti di teatro ragazzi, editoria e cinema per il sociale, formazione per comuni e scuole sui temi dell’antimafia e dell’impegno civile; durante questo lavoro che ho sentito l’esigenza di far diventare protagonista la mia storia personale, perché sentivo di avere uno strumento che avrebbe dato una scossa ai nostri ragazzi. Un sano e prezioso shock che li avrebbe attratti verso i temi del riscatto e del valore dell’antimafia con più facilità. Io racconto a questi ragazzi che fare delle scelte è difficile, nessuno deve sentirsi eroe, ma bisogna prendersi cura di sé stessi e del proprio coraggio, spesso schiacciato dalla paura e dalle insicurezze. Io ho trovato questa cura nel teatro, nella scrittura, nella narrazione.

Approdi a Bologna in un momento in cui l’Emilia Romagna è ancora lontana dal prendere consapevolezza del radicamento delle organizzazioni criminali sul suo territorio e sul suo sistema economico. È stato difficile parlare di mafie e far capire alle persone che il problema era reale, vivo e presente? Poi sono arrivati Black Monkey e Aemilia. Qualcosa è cambiato?

È stato difficile, lo è ancora. Sembra che siano bastati pochi giorni di processo Aemilia per sentirsi tutti più sereni e tranquilli, ma basta guardarsi attorno per incrociare ancora i volti dei mafiosi in una terra che si crede ormai in parte ripulita ma che al contrario sta vivendo ora più che mai il loro attacco. Bisogna seguire le vite dei “figli di…” residenti su tutto il territorio, spiarne i movimenti, le azioni quotidiane, gli investimenti, tracciarne la geografia sentimentale, che non ha mai perso il dialogo con il sud.

Solo così possiamo davvero avere un quadro più chiaro del loro radicamento e del loro grigio potere sul nostro presente; non sarà di certo un quadro rassicurante, ma va tirata giù la tela che lo copre per scoprire le firme di chi ha prodotto questo dipinto del male.

Tu lavori con le parole, con la narrazione. Qual è la narrazione dell’antimafia oggi? C’è qualcosa che sbaglia, che cambieresti?

L’unico errore visibile a tutti è quello di averla trasformato in una categoria. Antimafia è una bellissima e coraggiosa azione quotidiana, all’interno di un percorso umano e professionale che tutti dovrebbero fare, ma soprattutto conoscerne il peso della scelta.

Io faccio antimafia anche quanto apro un teatro e non racconto storie criminali.

La faccio prendendomi cura del valore della legalità nel mio settore sempre più fragile e disonesto, la faccio creando incroci nelle narrazioni che porto in scena, tra vecchie e nuove resistenze, la faccio difendendo e pretendendo giustizia sociale in tutti i settori dell’economia di questo paese.

Per me fare antimafia è mettere l’ingrediente giusto all’interno di una più complessa e articolata ricetta, a volte svelandolo a volte no, ma senza troppe plateali enunciazioni.

Camorra e adolescenti. Abbiamo sentito parlare di “boss ragazzini”, della “paranza dei bambini”, di piazze dello spaccio nelle mani di minorenni. La camorra sta guardando sempre più agli adolescenti?

Sui ragazzini boss abbiamo due contesti diversi da analizzare. Il primo contesto è quello delle donne nate all’interno di un sistema criminale: sono figlie, sono nipoti, sono mogli, sono madri.

La camorra investe su di loro, sono un prezioso strumento di crescita, non solo economica, ma anche e soprattutto sociale e culturale: sono le donne, ‘e femmen’, che decidono il futuro dei loro figli all’interno del sistema criminale, quindi bisogna farle stare “un passo avanti” agli uomini. La camorra questo fa: le rende protagoniste all’interno della sua enorme macchina della menzogna.

Il secondo contesto è quello delle donne fuori dal sistema, quelle madri, mogli, figlie lasciate sole in una città che non si prende cura di loro, che le lascia dietro ad ogni processo di crescita umana e professionale, donne che spesso si trovano già da giovanissime ad accudire un figlio.

Hanno mariti liquidi, che scivolano nei vicoli di una città che non li prende in considerazione e che li lascia spesso in strada a rosicchiare un tempo indefinito, durante il quale non fanno nulla o fanno poco. Questo marito che è anche padre spesso perde in casa la propria autorevolezza, quella sana autorità che al meridione spesso si traduce in sicurezza domestica per la moglie e per i figli.

Accade quindi che, mentre il padre si perde, il figlio trova spazio all’interno di una paranza perché si dice che sia un luogo dove poter raggiungere il benessere, quel benessere che sarà lui, il minore, a potare in casa e donarlo alla madre.

Basta che la madre accetti un solo dono per sancire il legame tra lei, donna delusa dal presente, con il figlio, ormai giovane camorrista, che rappresenta il futuro. Un riconoscimento del suo ruolo criminale che lo renderà forte in casa, rendendolo così protagonista di un complesso edipico di cui conosciamo già l’epilogo.

Per i figli è un’eredità difficile da gestire, tu hai avuto la forza e il coraggio di uscirne. Molti non ce la fanno. Quali strumenti dobbiamo dare a questi ragazzi? Come vedi l’esperienza del Tribunale dei minori di Reggio Calabria e di Roberto Di Bella? Può essere una via?

Credo che anche in questo caso bisogna fare un distinguo tra famiglia criminale e famiglia fragile potenzialmente criminale. Per la famiglia criminale, la storia giudiziaria ci spinge a dover prendere delle decisioni importanti: lo Stato ha tutto il diritto di sottrarre il minore per inserirlo in un contesto nuovo, diverso e sano. Lo so, sarà doloroso e lo segnerà per tutta la vita ma ci sono ferite che una volta risanate saranno segni indelebili, da mostrare con orgoglio.

Per tutte le altre famiglie bisogna ridare potere economico e sociale ai padri, scolarizzare i figli, far crescere umanamente e professionalmente le mamme e invitarle a partecipare alla crescita della città. Le donne sono la chiave per aprire quel portone giusto che apre su enormi ed infiniti prati di fiori colorati, che ridaranno di nuovo colore al grigiore dei loro sentimenti.

Era tuo padre”, quell’ “era” sembra parlare di un legame definitivamente reciso. Con tuo padre e con il suo mondo. Ora la tua vita è a Bologna? Che progetti hai in cantiere?

Il nostro passato è ormai memoria. Un esercizio comune che serve a tutti noi per sottolineare quel che siamo stati e quello che siamo oggi, in alcuni casi quel che forse non si è mai smesso di essere.

La mia vita oggi è a Bologna una città a cui devo molto. L’Emilia si è presa cura di me ed io oggi mi prendo cura di lei.

Per ora resto qua, ma non dimentico di che cosa è fatto il mio cuore, la mia carne e i miei soffi.

In cantiere ho tanto teatro. Scritto, recitato, diretto. Sto lavorando ad un progetto sulle devianze giovanili assieme a Lorenzo Garozzo, autore e drammaturgo con il quale da anni mi confronto su questi temi.

Un progetto ambizioso: vogliamo parlare di bullismo, di violenza giovanile al nord, ma farlo mettendo attorno ad un tavolo studenti, genitori e professori in un unico percorso comune.

Ci piace fare del teatro un luogo comunitario di confronto e scontro, in fondo è quello che il teatro stesso ci chiede da secoli.

Se questa intervista ti è piaciuta, condividila! Ti aspettiamo su www.mafiesottocasa.com per la prossima puntata 🙂