Di Sofia Nardacchione, pubblicato su “Irpimedia” il 02/12/2020

Perché un’organizzazione criminale si infiltri e radichi nel tessuto economico legale ci sono meccanismi, azioni, schemi ben precisi. Ma non solo: ci sono professionisti, esperti, persone di contatto da un mondo all’altro: quello mafioso e quello imprenditoriale, politico ed economico. Mondi che finiscono per unirsi, confondendosi e mimetizzandosi. È accaduto anche in Emilia-Romagna, con la ‘ndrangheta finita alla sbarra nel maxi-processo Aemilia.Il punto centrale delle modalità di azione della cosca guidata da Nicolino Grande Aracri non è stato, ed è tuttora, il controllo militare del territorio, ma il raggiungimento del profitto criminale. Lo strumento utilizzato dall’associazione mafiosa – che lascia da parte le tradizionali cerimonie di affiliazione, i riti e i rituali – è il mimetismo, buono per penetrare il tessuto economico e imprenditoriale.

Se fin da subito, quindi, lo scopo dell’associazione era quello di «acquisire direttamente e indirettamente la gestione e/o controllo di attività economiche», l’Emilia-Romagna era il territorio perfetto: il tessuto economico della regione è florido e, come scrivono i giudici della Cassazione, «estremamente propizio all’affermazione degli organismi imprenditoriali in mano all’associazione, ovvero ad essa soggiogati, in pregiudizio alla libera concorrenza». Tradotto: l’impresa mafiosa ha assoggettato anche parte dell’economia locale, che in alcuni casi ha aperto loro le porte.

A partire dagli anni Ottanta e Novanta, periodo caratterizzato dal dominio dei Dragone, l’azione della criminalità calabrese in regione è sempre stata orientata all’infiltrazione del tessuto economico locale. Nei decenni le modalità sono diventate via via sempre più sofisticate e i clan in Emilia si sono resi sempre più indipendenti dalla “casa madre” sia sotto il profilo criminale, sia sotto il profilo economico e imprenditoriale.

Riciclaggio: il caso Sorbolo

La presenza di una locale di riferimento in Emilia ha permesso anche alla casa madre cutrese di arricchirsi. C’è una persona di riferimento: Romolo Villirillo, uno dei capi della ‘ndrangheta emiliana. È lui che reinveste il denaro del boss Nicolino Grande Aracri. Ma non solo: attraverso pullman che viaggiano sulla linea Crotone-Parma arrivano in Emilia buste con quelli che nelle intercettazioni vengono chiamati “capretti”, cioè denaro in contanti o assegni bancari che poi vengono immessi nelle attività imprenditoriali della regione del Nord Italia. Le attività imprenditoriali in cui viene riversato il denaro sporco sono tante, a partire da quelle legate al settore immobiliare: c’è un caso emblematico, quello di Sorbolo.

Sorbolo è un piccolo comune di meno di 10mila abitanti a est di Parma: è qui che la ’ndrangheta ha fatto un enorme investimento immobiliare, che ha preso poi il nome di “Affare Sorbolo”. L’intervento immobiliare, valutato tra i 15 e i 20 milioni di euro, ha visto coinvolte 9 società che hanno lavorato alla lottizzazione di un intero quartiere del comune parmense. I soldi utilizzati per l’attività provenivano dalla cosca di Cutro – di cui quella emiliana è una ramificazione – e da altri delitti commessi in Emilia-Romagna. Un doppio binario che mostra il lato imprenditoriale dell’organizzazione criminale e la capacità di trarre profitto dall’agire criminale.

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