Segue dalla prima parte [che trovate qui], la conclusione dell’intervista a Davide Mattiello. Impegnato da una vita in associazioni che promuovono l’educazione alla cittadinanza e la lotta alle mafie, Davide Mattiello è stato eletto deputato nella XVII legislatura (2013-2018) e ha preso parte ai lavori della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie.

La cosa interessante infatti è che guardando al lavoro storico della Commissione emerge ad esempio che già negli anni ‘90 erano chiarissimi alcuni fenomeni quando ancora la percezione nei territori, ad esempio al Nord e in Emilia Romagna, almeno dal punto di vista della cittadinanza, non esisteva. Il problema è proprio la cerniera tra il lavoro che fa la Commissione e la conoscenza pubblica che se ne ha: la Relazione ovviamente è accessibile, ma come si potrebbe migliorare secondo te la divulgazione?

Il tema della divulgazione è legato a quello della costruzione dell’opinione pubblica, quindi è tema eminentemente politico: la Relazione è pubblica, naturalmente gira in tutte le sedi istituzionali, può essere usata da qualunque soggetto ne abbia un qualche interesse, dalle scuole alle università alle aziende. Il mondo economico non dovrebbe giocare in difesa sperando che nessuno bussi mai a quella porta, a sua volta dovrebbe essere molto interessato a capire quali sono le evidenze, pensa alla relazione semestrale della DIA, una fotografia scattata ogni sei mesi sulla situazione criminale: sono tutte fonti aperte. Il problema è politico: chi ha voglia di sapere queste cose? Fino a che non le leggi, puoi sempre dire che non le sai, magari passi per ignorante o per inadeguato al ruolo; una volta che le leggi, sale l’asticella della responsabilità politica. Per questo il lavoro che voi state facendo, che fa il movimento “civile” antimafia quando è serio e lavora bene, tutto il lavoro che si fa per raccontare, è un lavoro squisitamente politico, perché riduce l’aera dell’ignoranza, e mette progressivamente con le spalle al muro tutti coloro che hanno delle responsabilità pubbliche – non solo politiche – invertendo l’onere della prova. Fare lo sforzo divulgativo è un lavoro: prendere quelle seicento pagine e tradurle in 15 schede grafiche è un lavoro preziosissimo che quasi nessuno fa. Tradurre quel lavoro in schede serie, ma fruibili, è un enorme lavoro politico: più si disinnesca l’alibi del “non sapevo”, “sono informazioni difficilmente reperibili”, più si costringono gli operatori politici a farci i conti. Ecco perché secondo me non bisogna ridicolizzare le commissioni antimafia comunali, regionali, gli osservatori, che un po’ a volte nascono come funghi sull’onda della moda; a volte non funzionano, ma c’è anche una modalità seria di lavoro, come la vostra: chi fa “anche solo” comprensione, traduzione e divulgazione, fa un lavoro politico inchiodante. Io l’ho anche proposto a Chiamparino e sono curioso di vedere cosa succede. Non ci sono solo i massimi obiettivi investigativi, però non è possibile che nel 2019 qualcuno si permetta di dire che non sapeva che la mafia è pure in Val d’Aosta. Bisogna far sì che il politico che dice una cosa del genere si prenda i pomodori in faccia.

Qualche tempo fa in Valle d’Aosta raccontavo ad una platea di persone di mezza età e che di venerdì sera erano lì ad ascoltare me, quindi che avevano già una certa sensibilità, che la prima autobomba mafiosa fu ad Aosta nel dicembre 1982 contro il pretore Selis. Gli caricano la macchina di tritolo, poi la macchina era una Cinquecento talmente fatiscente che al momento dell’innesco l’esplosione si propagò all’indietro verso il motore, anziché far saltare l’intera macchina, e il pretore sopravvisse al primo attentato dinamitardo mafioso. Due giorni dopo tornano per ucciderlo, lui se ne accorge mentre sta per uscire di casa e si salva. Due anni dopo Selis si impicca. Che cosa sia successo tra i due attentati scampati e il suicidio è un mistero. Sappiamo però che Selis collaborava con Bruno Caccia, capo della Procura di Torino, assassinato sei mesi dopo il tentato omicidio di Selis con l’autobomba. Ecco l’importanza di una narrazione divulgativa intelligente, che connetta fatti che normalmente non vengono connessi: stavano lavorando insieme sul sistema di riciclaggio internazionale di denaro che passava per la Valle d’Aosta. Noi per anni ci siamo raccontati che Bruno Caccia era stato assassinato perché gli ‘ndranghetisti di Torino ce l’avevano con lui per una perizia sbagliata su una pistola, che aveva inguaiato ingiustamente un mafioso, e quindi volevano fargliela pagare. Ma come fai a raccontare una storia così, sapendo come lavora la ‘ndrangheta, sapendo che anni erano quelli, sapendo che prima di ammazzare un magistrato ci pensa cento volte e che i magistrati uccisi dalla ‘ndrangheta si contano sulle dita di una mano? Nel caso del povero Scopelliti – assassinato il 19 agosto ‘91 vicino a Reggio Calabria – c’era il patto con Cosa Nostra e il maxiprocesso, perché Scopelliti era procuratore generale di Cassazione, titolare della pubblica accusa nel terzo grado di giudizio. Come si può dire che nel ‘93 ammazzano il capo della Procura di Torino perché aveva sbagliato una perizia? E non legare quell’omicidio all’autobomba del procuratore Selis e quindi al riciclaggio di denaro, sequestri di persona, casinò? Siamo nei primi anni ‘80. Mi faccio prendere un po’ la mano ma credo che ci sia un dovere civile parlare di queste cose e renderle comprensibili.

A Torino abbiamo invitato il giudice Carlo Palermo, quello che doveva morire nella strage di Pizzolungo, il 2 aprile 1985, quando invece morirono Barbara Rizzo, Giuseppe e Salvatore Asta. Non gli misero la bomba per il lavoro che stava facendo a Trapani, era arrivato da 50 giorni; i motivi di quella strage – perché tale fu, ma morirono altri innocenti e non lui – sono da ricercare nell’attività istruttoria che fece a Trento tra il 1980 e il 1984, gli stessi anni di Selis e di Bruno Caccia. Questo giovanissimo giudice istruttore – suo malgrado, perché, lui stesso lo dice, all’inizio non aveva capito su cosa aveva messo le mani – si era imbattuto nel circuito internazionale di droga, armi, soldi, politica, dove la droga era in particolare l’eroina, cioè morfina base che arrivava dal Medioriente e doveva essere raffinata a Palermo, nelle raffinerie di Alcamo controllate da Cosa Nostra: Istanbul, Trento, Palermo, New York. Più tardi arriverà Pizza Connection, ma lui negli anni ’80, quasi per caso, scopre delle cose impressionanti.
Studiare questi fatti, per come ho potuto perché non sono né uno storico né un magistrato, mi ha confermato nella convinzione che per molti decenni – e io credo ancora oggi – le organizzazioni criminali sia di stampo mafioso che di stampo terroristico sono state variamente utilizzate dal potere istituzionale per governare l’ordine.

Sono passati trent’anni dall’assassinio di Nino Agostino e sua moglie Ida Castellucci, poliziotto che probabilmente contribuì a salvare Falcone dall’attentato dell’Addaura, non c’è ancora la verità. Quando vedo i genitori di Regeni, o penso a Ilaria Alpi, mi chiedo se queste cose stanno continuando a succedere in forme leggermente diverse se sono di volta in volta diverse le organizzazioni criminali di cui ci si avvale. Negli anni Ottanta andava bene Cosa Nostra perché era la più grossa organizzazione criminale in contatto con la politica, quindi era un’importante riserva di violenza illegale, fuori dal monopolio statale dell’uso della forza. Poi si è chiesto qualcosa alla ‘ndrangheta, poi alle formazioni terroristiche: sono riserve di violenza al di fuori del controllo democratico istituzionale. È come avere un lupo in cantina: in casa hai i dispositivi legali di controllo delle istituzioni, ma in cantina hai un lupo e quando ti serve vai a prenderlo. Non sono tutti d’accordo – infatti Aldo Moro è finito come è finito – ma basta parlare di istituzioni deviate: è un modo ordinario di gestire il potere. Di volta in volta c’è qualcuno che ne sa abbastanza che esce allo scoperto. Ma è un pericolo solo se ne sa abbastanza, altrimenti è inoffensivo e lo lasciano parlare. Se stai sotto una certa soglia non conti; quando sai delle cose e le dici, dall’alto di un ruolo importante, allora ti eliminano, da Ambrosoli in avanti. Ne sono serenamente convinto: infatti il mio dramma è che non mi è ancora successo niente, quindi vuol dire che non contiamo niente, non diamo fastidio in alcun modo! Tanto è vero che le persone che stanno sul confine, che vengono minacciate, sono i giornalisti, alcuni giornalisti: hanno la possibilità – se sono onesti e sono bravi – di varcare la soglia, non perché sono politici che hanno in mano leve di governo ma perché hanno in mano l’opinione pubblica. Il vostro sito, Mafie Sotto Casa, ha in mano la leva della divulgazione: quando tu con quella leva varchi la soglia e dici effettivamente cose, la reazione è immediata. Il meccanismo è attualmente in vita. Oggi la violenza di matrice mafiosa non colpisce tanto magistrati o forze dell’ordine quanto giornalisti: Dafne Galicia Caruana, fatta saltare in aria con la macchina piena di esplosivo, Jan Kuciak, assassinato vicino Bratislava; questi episodi ci dicono che si è allargato il raggio della violenza di sistema, ed essa colpisce sistematicamente. Io non credo che siano collegati nel senso di una regia unica dietro, ma credo che sia una buona chiave l’idea della convergenza di interessi. Appena tocchi i fili avviene una minaccia calibrata, che si tratti di intimidazioni o omicidi.

Forse oggi è calata la percezione di ciò…

Certo, e infatti vengono colpiti i giornalisti, l’unico led luminoso che è rimasto. Perché poi per il resto assistiamo a violenza di matrice islamista e infine sprazzi di violenza neofascista. Anche lì, forse un giorno se ne parlerà: gli uomini di destra sono gli stessi da quarant’anni, fatti espatriare al di là della Manica, coccolati una volta tornati in Italia. Personaggi che resistono da decenni perché hanno delle coperture: pensa alla parabola di Carminati, doveva arrivare Pignatone a Roma per metterlo in carcere. Sono pedine nella gestione del potere, che non va visto come un blocco monolitico da maledire ma come soggetto a un conflitto permanente. Tutto questo per dire: viva la democrazia e viva la politica, dobbiamo stare dentro il conflitto in maniera organizzata e consapevole.
Ti faccio l’ultima domanda: se tu adesso fossi nella Commissione quali credi che sarebbero i filoni più importanti da perseguire?
Intanto bisognerebbe esserci e non ci siamo. Vi invito a fare una radiografia dell’ufficio di presidenza dell’attuale Commissione Antimafia, per avere una misura della posizione del Presidente, Nicola Morra, persona perbene ma circondato da persone che rispondono direttamente o indirettamente a Berlusconi e a quel pezzo di potere, attuale e reale. Indirettamente per l’interposta persona di Matteo Salvini, che da lì proviene; al di là dei simboli e delle bandiere, si tratta di un sistema di potere e di relazione. Di volta in volta si manifestano pubblicamente con vestiti, divise e bandiere diverse, ma si tratta di sistemi relazionali. Quindi in primo luogo mi soffermerei sull’ufficio di presidenza.

Secondo, se ci fosse una Commissione parlamentare antimafia in grado di farlo – e questa non credo che lo sia ma non per responsabilità del Presidente Morra – bisognerebbe finalmente prendere in mano due sentenze: quella sulla Trattativa e quella del Borsellino quater. La precedente Commissione rispettò la delicatezza dei dibattimenti aperti, ma oggi abbiamo le sentenze con le motivazioni e uno straordinario lavoro fatto dalla Commissione antimafia regionale siciliana presieduta da Claudio Fava, che pur non avendo poteri investigativi come quella parlamentare si è messa a fare un lavoro serio di lettura sinottica di fonti aperte. Hanno fatto una relazione di 80 pagine, semplice, scelta politica per mettere in evidenza alcuni punti in modo da renderli accessibili. Sarebbe opportuno prendere la relazione Fava, le motivazioni dei due processi, con un lavoro di comprensione, riduzione, divulgazione, ascoltando in modo mirato le persone coinvolte, per assumere poi la responsabilità di un giudizio politico-storico su ciò che è accaduto in quegli anni e che ha determinato la risistemazione del potere nei seguenti 25 anni.

Per parafrasare umilmente le parole di Falcone, bisogna mettersi in testa che è un conflitto maledettamente serio, che la gente muore ancora oggi; le strategie sono in parte cambiate, ma la mafia come elemento rilevante nella gestione del potere entrava ed entra. Ci vuole uno scatto in avanti: è possibile che oggi come oggi una Commissione antimafia non metta nel mirino le reti informatiche? Non solo su quello spin off che è il gioco d’azzardo online, ma anche – e soprattutto – sul porno. Ho scoperto delle cose sul ruolo dell’industria pornografica e la sua contiguità con il mondo politico incredibili. Un nome su tutti Cardella, il sodale di Mauro Rostagno a Saman, uno dei primi imprenditori del porno in Italia. C’è un filone di indagine che mette in evidenza i collegamenti tra l’industria del porno statunitense – Penthouse – e quella italiana. Il porno è l’eroina più popolare che c’è. Dietro c’è la CIA, Gladio, gli aeroporti clandestini usati nella Sicilia occidentale dalla CIA per il traffico di armi e droga: è tutto negli atti giudiziari, nel processo legato a Carlo Palermo. È chiaro che tutto il porno online gratis è una operazione politica di controllo sociale: hanno capito che l’eroina ha troppi effetti collaterali, la Nappi di meno. Io sono convinto che sia un’operazione di controllo sociale: se è gratuito vuol dire che stanno comprando te. Me ne ero convinto già studiando l’operazione Bluemoon, con cui i servizi invasero il mercato con l’eroina per disinnescare la portata del movimento studentesco da Berkeley in avanti. Già allora dietro il porno c’erano i servizi. Il combinato disposto tra gioco d’azzardo legalizzato online e porno libero è meglio dell’eroina, è un sedativo collettivo; è un’operazione politica che richiede fondi consistenti.

Ma al di là di questo, mi preme parlare del web: noi siamo tremendamente ignoranti. Si dovrebbe andare con una telecamera e un microfono fuori da Montecitorio, a chiedere ai parlamentari che cos’è la blockchain: abbiamo una distanza siderale con il lessico base informatico. I mafiosi nell’Ottocento e Novecento in Sicilia controllavano l’acqua potabile perché era sinonimo di potere, oggi l’acqua sono i byte: se io oggi fossi un mafioso starei lì, perché oggi l’accumulazione originale di capitale non si fa più con il sequestro di persona, ma con il sequestro di persona digitale. Le nostre vite sono lì dentro: se prendo in mano la tua memoria digitale ho in mano la tua vita e non ho bisogno di sporcarmi le mani. Sono convinto che questo stia già succedendo, che ci siano personalità del mondo della politica, dell’economia, della magistratura, che sono ricattate. Qualche piccola inchiesta si è accesa ma sono piccole cose, come l’inchiesta Occhionero, di gennaio 2017. Se abbiamo capito il 416-bis, cioè che è mafia quell’organizzazione criminale che ai fini di delinquere si avvale della forza d’intimidazione del vincolo associativo, che genera omertà e assoggettamento, io oggi starei lì dentro: basta avere dei bravi informatici ben pagati che rubano le identità digitali, o che entrano e infilano un trojan per far diventare il telefono un microfono ambientale. E visto che la tecnologia necessaria non è una tecnologia d’élite, e visto che c’è una grande ignoranza di fondo, siamo degli sprovveduti, mettiamo la nostra vita lì dentro, siamo delle prede facilissime.

Se già un tempo c’era chi faceva dossieraggio sugli avversari politici, è tanto più facile oggi…

Pensa ai dossier di Andreotti o di Montante…noi abbiamo approvato le leggi per regolamentare l’utilizzo da parte dei servizi segreti e della magistratura dei trojan, ma quando il Parlamento arriva a fare una legge su certi strumenti, è perché gli apparati li stanno usando da anni! Figurarsi le organizzazioni criminali. Pensa come può evolvere la fenomenologia della corruzione, dell’intimidazione e del ricatto. Noi siamo a zero su queste cose e ancora ci chiediamo quanto Contrada fosse “punciuto”, che è giusto, però stiamo accumulando un ritardo mostruoso rispetto alle applicazioni criminali di queste tecnologie informatiche. Se fossi nella Commissione antimafia aprirei subito un’inchiesta su questo e li chiamerei tutti, per sapere come funzionano, come sono protette le reti ecc. Abbiamo tra le mani una tecnologia potentissima che per noi è come magia, non sappiamo come funziona. È un gap mai sperimentato prima. Se fossi in Commissione andrei come un treno su questa questione, andrei dalla Telecom – pensa che già dieci anni fa vendevano i dati, quando ancora non esistevano i social.

Ti racconto un’ultima cosa, così che rimanga agli atti: novembre 2017, finale di legislatura, a Milano organizziamo gli Stati Generali dell’Antimafia, con Orlando ministro. Io aspettavo una persona, Pansa, già capo della polizia, che in quel momento era il capo del DIS, il Dipartimento che coordina i servizi segreti italiano e che risponde al Presidente del Consiglio. E infatti non ha deluso le mie aspettative: è venuto a dire che qualche mese prima il mondo era stato sconvolto da un virus informatico chiamato Wannacry, che a un certo punto ha bloccato temporaneamente decine di migliaia di sistemi operativi, anche strategici. Questi i fatti di cronaca. Commento di Pansa: noi oggi, se dovessimo dire che cosa sia successo in quelle poche ore in cui i sistemi sono stati bloccati, quindi chi li abbia bloccati e se sono state aggiunte/tolte/manomesse informazioni, non lo sappiamo. Sarebbe dovuto venire giù il teatro. Il capo del DIS ci ha detto che non siamo in grado di sapere cosa diavolo è successo in quel lasso di tempo. Dove vuoi cercarla la mafia se non la cerchi in questi meccanismi, in una dimensione globale e digitale? Dove vuoi cercare il denaro se non lì? Poi certo che è importante confiscare la villa ai boss, ma quello è il minimo sindacale, dopo bisogna passare ad altri livelli. Purtroppo non mi sembra che si muova niente su questo piano. Ci sonoi i libri degli informatici che raccontano cosa sta succedendo, ma manca la bretella sull’utilizzo criminale. Per rispetto della memoria di Falcone noi dovremmo studiare queste cose. Giovanni Falcone sul finire degli anni Ottanta usava le memorie Casio e Sharp, costruiva artigianalmente banche date economico-finanziarie, per questo era pericoloso. Oggi starebbe tutto il giorno a studiare queste cose. Ripeto per l’ultima volta: non solo per il gioco d’azzardo, il porno, le truffe online, ma per il sequestro di persona digitale, le nuove modalità di intimidazione, ricatto e manipolazione. È vero che le mafie sparano di meno e corrompono di più, ma vogliamo uscire dalla retorica e chiederci davvero cosa vuol dire in relazione alle nuove tecnologie? La violenza del colpo di pistola è oggi trasferita nel web. Infatti i mafiosi usano i vecchi Nokia e i pizzini: c’è un’intercettazione di uno ‘ndranghetista che dice: “Avere uno di questi cellulari è come tenersi il carabiniere in tasca” e noi idioti abbocchiamo all’amo.

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E non perderti l’appuntamento del prossimo mese con #microfonoinmano, le interviste di Mafie sotto casa 🙂